Contenuto principale della pagina Menu di navigazione Modulo di ricerca su uniPi Modulo di ricerca su uniPi

copertina libroÈ uscito da poco "La scrittura e il mondo. Teorie letterarie del Novecento" (Carocci, 2016) di Stefano Brugnolo, professore di Critica Letteraria e Letterature Comparate del dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica del nostro Ateneo, un volume scritto insieme ai colleghi Davide Colussi, Sergio Zatti e Emanuele Zinato dell'Università di Padova. "Quali bisogni o desideri esprime la letteratura?", si legge nel risvolto di copertina "Esistono criteri per stabilire il valore di un testo? Il suo significato muta a seconda del lettore?" Il libro risponde a tali domande, ripercorrendo – in modo chiaro ma anche problematico – le idee, le parole-chiave, le forme discorsive che hanno segnato la teoria della letteratura dal primo Novecento a oggi". Presentiamo qui l'introduzione del libro dal titolo "Di cosa parliamo quando parliamo di letteratura"

*********************

Questo manuale aspira ad essere divulgativo ma contemporaneamente problematico e critico. Non intendiamo infatti elencare in sequenza i nomi e le idee dei principali teorici novecenteschi, ma semmai affrontare alcune grandi questioni e raccontare come quei teorici hanno preso posizione rispetto ad esse, e se e come ne sono venuti a capo; questo a partire dalla questione preliminare, la più immediata ma anche la più difficile di tutte, quella che corrisponde al titolo di un memorabile saggio di Jean-Paul Sartre (1905-1980): Che cos’è la letteratura? I criteri che solitamente sono stati adottati per rispondervi sono tre: quello istituzionale (è letteratura quel che una società definisce tale), quello immaginario (sono letterari i discorsi che ci fanno evadere dalla realtà), quello formale (sono letterari quei discorsi che presentano specifiche caratteristiche linguistiche). Come vedremo, a seconda della prospettiva che si adotta cambia la risposta che si dà. Ma se questo è l’interrogativo di base è vero anche che resterà un po’ sullo sfondo, mentre affronteremo più puntualmente e diffusamente altre questioni più vicine alla comune prassi interpretativa. La prima di esse sarà: da dove viene la letteratura? Da quali realtà psichiche o culturali, individuali o collettive emana? O se preferiamo: quali istanze, bisogni o desideri esprime? La seconda: la letteratura è un gioco fine a sé stesso, un puro divertimento, oppure ci parla del mondo, lo rispecchia, lo imita? E, in questo caso, secondo modalità trasparenti o deformanti? La terza: di che tipo è il messaggio o il significato che veicola un’opera letteraria? È traducibile in parole piane e razionali o presenta caratteristiche che la rendono refrattaria al discorso logico? La quarta: tale significato è fisso nel tempo o cambia a seconda del lettore, delle epoche, delle società, e insomma della prospettiva che si adotta? La quinta: esistono criteri o procedure per stabilire l’eccellenza estetica di un testo o, ancora una volta, tutto è demandato alla sensibilità soggettiva, oppure alle scelte di élite che impongono di considerare valide solo certe opere? E infine l’ultima: a cosa e a chi serve la letteratura? Che funzione svolge dentro una certa comunità o anche nello sviluppo della specie umana? Serve a diffondere immagini del mondo che confermano l’ordine vigente o a proporcene di originali e scomode?

Anche se è sempre possibile proporre altre domande e articolarle in modo diverso, sono questi i nodi concettuali fondamentali con cui si sono confrontati tutti i teorici della letteratura. Ad essi perciò ci riferiremo continuamente anche quando non li evocheremo esplicitamente. Come si può constatare non sono problemi che riguardano solo gli specialisti ma possono interessare tutti coloro che consumano romanzi, poesia, teatro, canzoni, cinema ecc., e amano rifletterci sopra. In fondo cercare di comprendere cosa sia, come funzioni, a cosa serva la letteratura significa cercare di comprendere che tipo di relazione intercorra tra le parole e le cose, tra i testi e la vita che conduciamo, e significa anche chiedersi se e come, rappresentando e raccontando il mondo, possiamo dargli un senso condiviso. Anche se non sono stati solo i teorici della letteratura a porsi questi problemi, crediamo che le loro risposte possano aiutare tutti ad orientarsi meglio. Ci piace dunque immaginare che un libro come il nostro contribuisca a fare uscire il discorso critico-teorico dal suo attuale isolamento, per renderlo parte viva della discussione intellettuale pubblica.

Ecco adesso qualche premessa e istruzione per l’uso di questo manuale. Mentre nei capitoli successivi approfondiremo alcune specifiche teorie, in questa introduzione vi proponiamo un rapido inquadramento delle principali linee di ricerca e riflessione, scegliendo come motivo dominante il conflitto tra l’approccio mimetico e quello anti-mimetico. Quest’ultimo ha cominciato ad affermarsi a partire dalla metà dell’Ottocento in Francia. È stato infatti Charles Baudelaire (1821-1867), che però sviluppava alcuni spunti di Edgar Allan Poe (1809-1849), il primo a proporre con enfasi l’idea che la poesia non debba mirare all’Insegnamento o alla Morale o alla Verità, perché essa «non ha per oggetto [...] che sé stessa» (Baudelaire, 1857, p. 828). È la linea dell’autonomia del bello, che dopo Poe e Baudelaire altri scrittori e poeti – Flaubert, Mallarmé, Proust – proseguiranno e approfondiranno. Spesso questi scrittori sono stati considerati antesignani delle posteriori teorie autoreferenzialiste ma va ricordato che essi avevano una idea altissima della funzione sociale della letteratura, tanto che ritenevano che soltanto essa, dopo la fine della religione, avrebbe potuto trasfigurare e “salvare” il senso dell’esperienza umana, altrimenti destinata all’insignificanza e all’oblio. Solo nel Novecento questo tipo di visione attecchirà negli studi letterari veri e propri – si pensi alla concezione estetica di Benedetto Croce, al formalismo russo ma soprattutto allo strutturalismo francese (cfr. i CAPP. 1 e 5) – e anzi si radicalizzerà fino al punto di trasformarsi nella concezione autoreferenzialista vera e propria, secondo cui i testi poetici non rimanderebbero a nessuna realtà extra-testuale, ma unicamente a sé stessi. Tale concezione, che ha rotto con le poetiche della mimesi prevalenti in Europa da Aristotele in poi, è stata da allora sostanzialmente egemone fino ad oggi. Tutte le riflessioni che si sono date intorno alla letteratura hanno in qualche modo fatto i conti con questo nuovo paradigma, sia per aderire ad esso che per contestarlo.

Stefano Brugnolo

Un programma annuale di eventi musicali rivolti ai pazienti, ai loro familiari e al personale ospedaliero, che culminerà in un grande concerto all’aperto, al Santa Chiara o a Cisanello. E’ questo il cuore del progetto “Musica in corsia” nato dalla collaborazione fra il Centro per la diffusione della cultura e della pratica musicale dell’Ateneo pisano, formato da Coro e Orchestra, e Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana (Aoup). Ad inaugurare il ciclo sarà il Concerto di Natale offerto ad alcuni ricoverati e al personale ospedaliero, che si terrà il 15 dicembre alle 18 all’ospedale di Cisanello (Edificio 30 B/C Sala d’Attesa del Polo Endoscopico).

“Non si tratta di “musica in corsia” in senso stretto, anche perché la tipologia e l’ampiezza delle due formazioni non sarebbe compatibile con tale spazio – spiega la professoressa Maria Antonella Galanti, coordinatrice del Centro musicale - si tratta, invece, di programmare alcuni eventi musicali negli spazi di raccordo tra le corsie, cioè atrii e corridoi, utilizzando una selezione di orchestrali e di coristi, per poi culminare in un concerto finale più ampio”.

 

coro dell'Università di Pisa


Per gli auguri in musica del 15 dicembre il programma prevede musiche e canti della tradizione natalizia a partire da classici come “White Christmas” e “Jingle Bells” eseguiti dall’Orchestra diretta dal maestro Manfred Giampietro e dal coro diretto dal maestro Stefano Barandoni.

“Il progetto "Musica in corsia" conferma l'impegno dell'Azienda ospedaliero-universitaria pisana per l'umanizzazione dei luoghi di cura favorendo, anche attraverso la musica - la costruzione di legami fra i degenti, i loro familiari e amici, gli artisti, gli operatori sanitari. Nel corso del 2017 la musica dal vivo sarà protagonista di altri eventi, sia a Cisanello sia al Santa Chiara”, ha dichiarato il Direttore Generale dell’Aoup Carlo Tomassini.


Orchestra dell'Università di Pisa


“Coro e orchestra universitari rappresentano un momento di formazione e di socializzazione che l’Ateneo sostiene e valorizza – ha concluso il rettore dell’Università di Pisa Paolo Mancarella - ma hanno anche una funzione di raccordo tra università e territorio. E’ bello che tale funzione non si esprima solo in eventi offerti alla città e alla comunità accademica, ma si leghi anche ai luoghi che circoscrivono il disagio o il dolore, come l’ospedale, attraverso il linguaggio universale della musica”.

---

Foto, dall'alto, il Coro e l’Orchestra dell’Università di Pisa

Un team di ricercatori toscani guida uno dei più innovativi progetti in ambito culturale finanziato quest’anno dalla Comunità Europea con il programma Horizon 2020. E’ il progetto ArchAIDE, ideato e coordinato dal Laboratorio MAPPA del dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa e a cui partecipano il Visual Computing Lab di CNR-ISTI e l’impresa pisana INERA srl accanto ad una serie di partner internazionali tedeschi, britannici, israeliani e spagnoli.

Grazie alla più avanzata tecnologia di riconoscimento automatico delle immagini, il progetto ArchAIDE nei prossimi tre anni svilupperà una innovativa App e un data base globale in grado di rivoluzionare la pratica dell’archeologia.

archaide team di ricerca toscano

“Ogni giorno, gli archeologi lavorano per scoprire e raccontare le storie che gli oggetti del passato portano fino a noi, investendo molto tempo, energie e denaro per riconoscerne e caratterizzare ogni singolo reperto – spiega Francesca Anichini ricercatrice dell’Ateneo pisano – quello che vogliamo realizzare è un sistema di riconoscimento automatico delle ceramiche provenienti dagli scavi archeologici di tutto il mondo, un lavoro che oggi invece viene fatto in modo interamente manuale”.

In pratica, grazie alla App di ArchAIDE, gli archeologi ovunque si trovino potranno fotografare direttamente qualsiasi frammento di ceramica trovato, inviare le proprie coordinate a un grande archivio, attivare il sistema di riconoscimento automatico dell’oggetto, ottenere una risposta con tutte le informazioni utili collegate e, infine, archiviare i dati del singolo reperto su un database che permette di condividere on-line ogni nuova scoperta.

La App sarà testata direttamente sul campo e in diversi paesi europei, grazie alla partecipazione diretta di archeologici professionisti che daranno una serie di feedback sul prodotto fino al rilascio della versione definitiva previsto per i primi mesi del 2019.

Obiettivo collaterale del progetto sarà inoltre quello di realizzare una versione “kids” ed educational che permetterà anche ai più piccoli di approcciarsi al mondo dell’archeologia e alle storie che i reperti ceramici possono raccontare, imparando in modo facile e divertente.

Il progetto ArchAIDE (Archaeological Automatic Identification and Documentation of cEramics, 2016-2019) è stato presentato venerdì 2 dicembre 2016 alle ore 11.30 presso la sala Molajoli nel Complesso di San Michele a Ripa a Roma, in occasione della messa on-line del sito web.

---

Fotografia: il team toscano che guida il progetto ArchAIDE composto dai ricercatori del Laboratorio MAPPA dell’Università di Pisa, del Visual Computing Lab di CNR-ISTI e dell’impresa INERA, da sinistra Gabriele Gattiglia, Roberto Scopigno, Francesco Banterle, Bledar Muca, Simona Bellandi, Marco Callieri, Alberto Cagetti, Elda Chiriconi, Domenico Arenga, Massimo Zallocco, Simonetta Menchelli, Maria Letizia Gualandi, Sandro Petri, Serena Tonelli, Nicola Trabucco, Francesca Anichini, Lorenzo Garzella

Cosa si celi dietro allo sguardo di una donna è un mistero che ha ispirato scrittori, artisti, filosofi e scienziati di ogni epoca. E anche psichiatri, come dimostra il libro "L’abisso negli occhi. Lo sguardo femminile nel mito e nell’arte" (Edizioni Ets, 2016) scritto a quattro mani da Liliana Dell’Osso, professore di Psichiatria dell’Università di Pisa, e da Barbara Carpita, medico chirurgo e sua allieva. Un viaggio che da Medusa, che pietrificava chiunque guardasse, allo sguardo malefico delle streghe medioevali, arriva sino alle moderne icone di femminilità dello star system, come Marilyn Monroe. Un percorso che si articola anche attraverso la lettura dei capolavori d'arte e di fotografie di cui diamo qui alcuni esempi tratti dal volume.

*********

 medusa.jpgMichelangelo Merisi da Caravaggio, Scudo con testa di Medusa

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Scudo con testa di Medusa. Olio su tela, 1597 ca. Galleria degli Uffizi, Firenze. La testa di Medusa di Caravaggio suscita una particolare inquietudine in chi la osservi. La sua espressione è minacciosa oppure terrorizzata? Nel mito della Gorgone si può scorgere una rappresentazione ante litteram del PTSD: la patologia mentale delle vittime di stupro, che trasformerà la seducente fanciulla in un mostro, capace di ritorcere le armi del proprio fascino corrotto contro chi la minacci ancora. I suoi occhi sono inquietanti perché sono quelli della vittima, paralizzati nella riesperienza cronica del trauma. Uno sguardo che pietrifica perché pietrificato dall’orrore e dall’impotenza, dunque, che colpisce perché riflesso della consumazione, da inferno dantesco, di un dramma che non può non ritorcersi contro l’interlocutore.

Vittorio Matteo Corcos, Sogni. Olio su tela, 1896

Vittorio Matteo Corcos, Sogni. Olio su tela, 1896. Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma. Lo sguardo di Elena Vechi, fanciulla moderna, esprime una profonda consapevolezza. La donna sembra sfidare l’interlocutore, i libri accanto a lei testimoniano la sua istruzione, la sua saggezza. Il suo sguardo, sensuale e provocatorio, è anche disilluso: è consapevole del suo potere, ma anche della propria solitudine, conseguente al distacco, rispetto ai desideri e alle occupazioni delle ragazze dell’epoca. Sembra sapere che sarebbe ingenuo sperare di veder riconosciute le proprie capacità. Al tempo stesso, la posa assorta e lo sguardo fisso sembrano rimandare all’estraniazione, all’immersione nei propri pensieri tipica dei visionari, caratterizzati dalla capacità di pensare fuori dagli schemi, spesso “in anticipo” rispetto al loro tempo. Il prezzo da pagare è, quasi sempre, l’isolamento sociale.

Marilyn Monroe

La maschera Marilyn. Il capolavoro in cui l’attrice ha dimostrato la propria genialità è Marilyn stessa. La Marilyn che conosciamo non è reale, è un prodotto confezionato abilmente da Norma Jeane (vero nome dell’attrice), tramite uno studio faticoso e attento, complice il perfezionismo e la ruminatività ossessiva: sintomi di spettro autistico, come del resto lo è l’attitudine alla mimesi, la necessità di costruirsi una maschera – solitamente basata sull’imitazione di modelli – per interagire socialmente. Il suo volto è diventato un’icona, il simbolo stesso della sensualità femminile nella cultura pop, e mantiene la sua forza anche quando stilizzato: Andy Warhol ne fece un’opera d’arte. Proprio come per gli occhi di Medusa, ciò che colpisce è la mancanza di sintonicità e di intenzione comunicativa: si tratta di uno sguardo volto a esercitare un potere, un fascinum (pietrificare, oppure sedurre) unidirezionale, impermeabile agli stimoli esterni.

 

pavone1È morto a Roma, dove era nato nel 1920, Claudio Pavone, uno dei maggiori storici italiani. Avrebbe compiuto 96 anni il 30 novembre. Partigiano, direttore della rivista 'Parolechiave', docente all'Università di Pisa e presidente dal 1995 al 1999 della Società italiana per lo studio della storia contemporanea, Pavone, alla fine della guerra è stato funzionario di archivi e ha avuto un ruolo fondamentale nella sistemazione dell'Archivio Centrale dello Stato.
Pubblichiamo di seguito il ricordo "In memoriam" del professor Pavone, scritto dal suo allievo e amico Michele Battini, professore ordinario di Storia della politica dell'Ateneo pisano.

------------------------------------------------

 Claudio Pavone. In memoriam

"Ieri, verso le 20,30, è stato arrestato il nominato Pavone Claudio fu Amleto (...), perché sorpreso mentre gettava dei volantini di contenuto sovversivo (...). Il Pavone, inoltre, è stato trovato in possesso di una borsa contenente 4 copie del giornale 'Avanti!', stampato alla macchia (...), recante la seguente intestazione:'La guerra antifascista è guerra del popolo. Il Re e Badoglio non hanno diritto di esserne a capo.', nonché di un libro di Benedetto Croce intitolato Aspetti morali della vita politica e di un volume di salmi tradotti dall'Ebraico...". Recitava così il Mattinale della questura di Roma del 23 ottobre 1943.
Pavone aveva allora 23 anni. Formatosi in una famiglia della borghesia meridionale liberale - il nonno paterno passò dieci anni nelle galere borboniche - e in una educazione materna cattolica, assunse molto presto un atteggiamento morale di tipo giansenista, combinato con la filosofia di Croce riletta attraverso il dialogo con Eugenio Colorni, che gli fu maestro, amico e compagno di lotta nella Resistenza, e il lavoro politico con i ferrovieri antifascisti romani.

"Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale è implicito nel suo essere stato un atto di disobbedienza - scrive Pavone nel suo libro più celebre, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza del 1991 - ma il nesso necessità-libertà, sempre così difficile da cogliere, si presenta nella scelta resistenziale problematico e limpido a un tempo, perché la necessità rinvia a una situazione comune a tutti, ma la libertà nasce dalla solitudine in cui si sceglie". Si trattava di una ricostruzione magistrale e di una lezione etica che vale ancora oggi.

Studente della Facoltà pisana di Lettere e Filosofia, e perfezionando di Storia della Scuola Normale Superiore, conobbi Claudio Pavone come discepolo, al suo debutto di docente dell'Università di Pisa nei primi anni Settanta (era docente di Storia dell'Italia nel XX secolo, e proveniva da una lunga esperienza di archivista).

In quel tempo, "il discorso di una nuova libertà" - come ha scritto Pavone stesso - era sembrato riaprirsi. Per me fu naturale rispecchiarsi nella sua riflessione storiografica, che osava l'azzardo di coniugare in termini nuovi il nesso tra politica e morale, attraverso la categoria storica di "moralità": la moralità nella Resistenza, ma anche nella lotta politica e nella battaglia delle idee di quegli anni 1967-'76, nel durissimo conflitto sociale dell'ultima stagione di lotte nella storia del movimento operaio italiano.
Ogni uomo, in una determinata situazione (Pavone citava Sartre) è segnato dalla contraddizione tra necessità e libertà, e tenta di uscirne scegliendo di agire in un intricato groviglio di idee, emozioni, impulsi e valori che forma la nostra "moralità": nella riflessione sulla moralità dei militanti della Resistenza, Pavone fu maestro di antideterminismo, al pari di Vittorio Foa, suo caro amico.

Prima di diventare professore di Storia a Pisa, era stato uno storico importante e un grande archivista, dunque un esploratore di fonti, documenti, "scartoffie" - come scriveva - e un ricercatore non di "discorsi", ma di fatti concreti che dai documenti possono essere inferiti con ragionevole certezza: e non vi è dubbio che, anche e soprattutto come storico, egli abbia valorizzato al massimo l'intrinseca importanza filologica del lavoro archivistico, quale funzione di mediazione tra domanda storica, e inventario e programmazione, d'archivio. Negli anni Sessanta infatti progettò e avviò, con Piero D'Angiolini, "La Guida Generale degli Archivi di Stato Italiani", diretta nei tempi successivi da altri valenti archivisti,impresa che rimane un suo merito fondamentale.

Fonti, memoria e storiografia, oggi spesso confuse, costituirono dunque sempre i campi distinti della sua pratica del sapere: a conclusione di un tragitto segnato da una impressionante serie di saggi, contributi e volumi, di pochi mesi fa sono i suoi ricordi giovanili, La mia Resistenza. Ma elaborazione della memoria, ricerca storica e conservazione delle cose, a partire dalle scartoffie, non hanno un rapporto facile, egli ammoniva: come convenne con Francesco Orlando, altro maestro e amico, in un dialogo memorabile avvenuto nel 1994 nella biblioteca pisana di Orlando, sul Lungarno, al quale ebbi il piacere di partecipare.

Storico dello Stato, delle istituzioni, dell'amministrazione e del Diritto (era laureato in Giurisprudenza e in Filosofia), ha scritto forse il suo saggio più bello sulla cultura italiana, come specchio delle lacerazioni tra fascisti e antifascisti di fronte alla tradizione nazionale, al Risorgimento, a se stessa. E quando l'anti-antifascismo è divenuto una moda, la sua voce acuta e spesso incrinata dalla indignazione non ha mai mancato l'occasione di farsi sentire. Fino all'ultimo, sino alla sua morte, ieri 29 novembre 2016, vigilia del suo novantaseiesimo anniversario.

Michele Battini
Docente di Storia della Politica

storia e teoria del feticismo copertina del libroDopo la traduzione in francese del 1992 - Le fétichisme. Histoire d’un concept (Paris, PUF, 1992) - è appena uscito anche in lingua inglese l'ormai classico Teorie del feticismo (Milano, Giuffré, 1985) di Alfonso Maurizio Iacono, professore di Storia della Filosofia del dipartimento di Civilta' e Forme del Sapere. Pubblichiamo qui in italiano, l'incipit del volume The History and Theory of Fetishism (Palgrave Macmillan, N.Y. 2016, pp. 202).

**************

Che cosa significa proporre una ricerca sul Feticismo? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fermarci e guardarci intorno. Siamo letteralmente circondati da feticci, cioè da oggetti ai quali attribuiamo qualità che appartengono alle relazioni umane e che, proprio in virtù di queste qualità, pur mostrandosi identici, ci appaiono diversi da ciò che sono. In questo processo, le cose inerti diventano vive e allo stesso tempo si impongono, fascinose, sulle persone.

Discutere di questi meccanismi porta anche a riflettere sui processi cognitivi e a prestare attenzione alle relazioni non solo tra sé e gli altri e tra sé e il mondo, ma anche e soprattutto tra sé e sé. Significa mantenere la propria consapevolezza critica anche quando entriamo nei luoghi senza tempo e isolati dal mondo reale, in quelle caverne di Platone dove la finzione perde la cornice e i confini fra i mondi reali e virtuali si confondono. I centri commerciali, luoghi dove ci possiamo limitare a guardare le merci-feticcio senza l’obbligo dell’acquisto, ne sono un tipico esempio.

Il tema del feticismo, religioso, economico-sociale, psicoanalitico, è quello di oggetti che stanno al posto di un dio, di cose che stanno al posto di uomini, di parti che stanno al posto del tutto, oggetti di cui si sono perduti o nascosti l'origine e il senso della sostituzione. Lo stare al posto di un altro è caratteristico delle forme rappresentative e di quelle simboliche. Averne consapevolezza critica è importante dal punto di vista dell'apprendimento perché aiutano ad acquisire la distanza cognitiva.

L’osservatore deve essere consapevole che la sua è una posizione difficile, è sempre in bilico tra il cadere dentro l’oggetto e l'allontanarsene troppo. Non si tratta di ripristinare la purezza dell'oggetto rispetto alla sua presunta distorsione rappresentativa o simbolica, né di affermare la verità della cosa contro la sua apparenza. Si tratta di cogliere criticamente lo scarto che inevitabilmente si produce nel momento in cui la rappresentazione sostituisce l'oggetto che rappresenta e di cui si perde la traccia quando tale sostituzione viene nascosta e dimenticata. Quando ciò accade, quando cioè lo scarto diventa invisibile, è proprio allora che si produce ciò che i filosofi, a partire dal XVIII secolo, interpretando successivamente il fenomeno in modi diversi, inventarono quel concetto che fu chiamato feticismo.

Si potrebbe dividere la storia del concetto di feticismo in due parti. La prima riguarda la storia della nascita e della morte di un concetto immaginato come scientifico e corrispondente ad una ben definita e autonoma forma di credenza religiosa. E’ la storia di un malinteso di origine colonialista, che durò all’incirca dal 1760 fino agli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo e che rese scientifico ciò che apparteneva fondamentalmente alla credenza carica di pregiudizi degli osservatori occidentali. La seconda rappresenta per così dire l’altra faccia dello specchio di questa storia. Feticci e feticismo furono ben presto avvertiti come concetti che potevano aiutare la riflessione critica dell’osservatore occidentale il quale non soltanto guardava dal di fuori il mondo degli altri, primitivi e selvaggi, ma, pur stando all’interno del mondo occidentale, poteva simulare uno sguardo dal di fuori, guardando come avrebbero potuto guardarci gli altri dal loro punto di osservazione.

Alfonso Maurizio Iacono

Un prestigioso riconoscimento scientifico e culturale va ad arricchire la biografia di due illustri professori dell'Università di Pisa, Lucia Tomasi Tongiorgi e Giuseppe Di Stefano, che da alcuni giorni sono entrati nel ristretto elenco dei soci corrispondenti dell'Accademia Nazionale dei Lincei, in rappresentanza della classe di Scienze morali, storiche e filologiche. La nomina, approvata già a fine luglio, è stata ufficializzata dal presidente dell’Accademia, Alberto Quadrio Curzio, nella relazione per l'inaugurazione dell’anno accademico che si è tenuta a Roma lo scorso 11 novembre. "Dalla complessa procedura di cooptazione attraverso la quale entrano oggi ufficialmente ai Lincei i nuovi soci italiani e stranieri - ha detto il professor Quadrio Curzio - si rileva la loro eminenza scientifica, ma anche la loro sapienza culturale in modo tale ch’essi esprimono una capacità di visione per cui scienza e cultura sono radicate nella storia e contribuiscono al progresso civile e al bene comune per lo sviluppo umano".

"Ai due illustri amici e colleghi vanno le mie più sentite congratulazioni - ha commentato il rettore dell'Università di Pisa, Paolo Mancarella - per un riconoscimento davvero meritato che contribuisce ad elevare ulteriormente il prestigio della nostra Università".

tongiorgi1Di Stefano1

Lucia Tomasi Tongiorgi è stata per diversi anni professore ordinario di Storia dell’arte moderna nell’Università di Pisa, dopo aver insegnato negli Atenei di Udine e Siena, ricoprendo anche le cariche di direttore del Museo della Grafica, della Scuola di specializzazione nelle arti visive e del dottorato in Storia delle arti visive. Dal 2003 al 2009 è stata prorettore vicario e dal 2010 al 2016 delegata del rettore per le iniziative culturali. Nel 2009 è stata insignita dell’Ordine del Cherubino.

Nelle Motivazioni del riconoscimento, l'Accademia dei Lincei ha sottolineato che "i campi di ricerca della professoressa Lucia Tomasi Tongiorgi insistono nel dominio dell’arte moderna con particolare riguardo ai rapporti tra arte e scienza e allo specifico dell’iconografia naturalistica, argomenti sui quali la sua ricerca ha prodotto oltre centoventi pubblicazioni, tra volumi, saggi e cataloghi di importanti mostre. In questo settore disciplinare, fino a non molto tempo fa poco frequentato in Italia, ha svolto un’attività pionieristica di altissimo livello che le ha riservato il ruolo di punto di riferimento dominante: è infatti accademica ordinaria dell’Accademia delle arti del disegno di Firenze, e accademica corrispondente dell’Accademia dei Georgofili e Fellow della Linnean Society di Londra. Nel 2007 il Ministro dei Beni Culturali l’ha chiamata a far parte del Comitato nazionale per le onoranze a Galileo. Ma l’apprezzamento per il suo standing scientifico si è affermato soprattutto nei paesi di cultura anglosassone, da tempo più attenti e produttivi in questi settori disciplinari. È stata visiting professor presso il Getty Center di Malibu, poi presso il Department of History of art dell’Università di Oxford (1997), dal 1996 al 2002 senior fellow di Dumbarton Oaks (Harvard University) e dal 1990 a oggi attiva collaboratrice della Oak Spring Garden Library (Mellon Foundation). Le mostre da lei organizzate presso la Biblioteca Estense di Modena, il Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, la National Gallery di Washington e il New York Botanical Garden costituiscono ancora oggi un punto fondante per le ricerche in questi campi di indagine".

Giuseppe Di Stefano è stato professore ordinario di Letteratura spagnola nell’Università di Pisa dal 1975 al 2009 e attualmente è professore emerito. Ha ricoperto vari incarichi nelle istituzioni accademiche, fra cui quello di preside della facoltà di Lingue e letterature straniere dal 1983 al 1989 e dal 1999 al 2007, di direttore del Centro linguistico Interdipartimentale e di delegato del rettore per la comunicazione dal 2006 al 2010.

Nelle Motivazioni del riconoscimento, l'Accademia dei Lincei ha ricordato che "nei suoi lavori, il professor Giuseppe Di Stefano ha sempre saputo coniugare con rara competenza l’indagine diretta sui testi con un’esemplare attenzione al contesto storico-culturale e alla fortuna delle opere e degli autori, proponendosi come una figura di riferimento fondamentale per gli studi ispanici italiani e internazionali. La sua ricerca scientifica, con qualche escursione nella letteratura del Settecento e dell’Ottocento, ha come ambito di specializzazione privilegiata l’epoca medievale e i cosiddetti Secoli d’Oro – dal Trecento a tutto il Seicento –, con studi su alcuni dei principali nodi storico-critici della letteratura spagnola: romancero e poemi epico-lirici medievali (un volume e molti articoli di ricostruzione storica, edizione e analisi, e quattro raccolte commentate, pubblicate tre in Spagna e una in Italia, dal 1967); il trecentesco Libro de buen amor, di Juan Ruiz, con edizione italiana bilingue commentata e numerosi articoli e interventi congressuali (dal 1998); la poesia cancioneril quattrocentesca, con saggi e conferenze (dal 1968); il romanzo cavalleresco del Cinquecento, con edizione critica del Palmerín de Olivia e studi connessi (dal 1965); la letteratura popolare in versi nel Cinquecento e inizi del Seicento, in particolare nei fogli volanti, con inventari, indagini bibliografiche e analisi critiche (dal 1968); il Don Chisciotte cervantino, con saggi e interventi congressuali; il Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, con messe a punto testuali e analisi critiche".

Da dove viene l'idea dell'Election day in America? E perché, ad esempio, è sempre un martedì? Le risposte a queste e ad altre domande in un post di Arnaldo Testi, professore di Storia americana al dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell'Università di Pisa, dal suo blog Short Cuts America in cui scrive di politica, della società e della cultura degli Stati Uniti di oggi. 

---

Election Day? Che sia all’inizio di novembre, di martedì

La data delle elezioni presidenziali americane non è scritta nella pietra della Costituzione, ma in una legge federale. La legge è antica, del 1845, e dice in poche righe che i grandi elettori che formano l’Electoral College presidenziale, quello che elegge il Presidente e il Vice-presidente degli Stati Uniti, devono essere scelti lo stesso giorno in tutti gli Stati dell’Unione. E che questo giorno è il primo martedì di novembre successivo al primo lunedì di novembre. Quindi, se si fa un rapido calcolo, non può essere il primo del mese, ma un giorno fra il 2 e l’otto. L’8 novembre, come in quest’anno 2016, è la data più tarda possibile.

Il perché di questa bizzarra clausola è tecnico, rinvia a una legge ancora più antica, e richiede un po’ di paziente applicazione. All’alba della repubblica, nel 1792, il Congresso aveva stabilito che i grandi elettori presidenziali dovevano riunirsi ed esprimere i loro voti (ciascuna delegazione nel proprio stato) il primo mercoledì di dicembre. Gli stessi grandi elettori, inoltre, dovevano essere designati dagli stati nei 34 giorni precedenti a quella data. Ora fast forward alla legge del 1845. Nella prima stesura si diceva solo: che la designazione avvenga il primo martedì di novembre. Ma poi qualcuno osservò che in certi anni il periodo fra il primo martedì di novembre (se cade il primo del mese) e il primo mercoledì di dicembre è superiore ai 34 giorni. Il marchingegno adottato evitava questo rischio.*

Già la legge del 1792 aveva messo un po’ di ordine nei tempi delle procedure elettorali. Aveva costretto gli stati ad agire in un periodo definito dell’anno (gli ormai famosi 34 giorni appunto e non, come accadeva per altre elezioni, d’aprile o d’estate o a settembre o quando a loro piacesse). L’inizio di novembre divenne il momento preferito, ma i giorni erano ballerini, variavano da stato a stato. Succedeva così che gli stati che votavano più tardi conoscessero alcuni risultati e ne fossero influenzati. E anche che i partiti organizzassero gruppi di elettori entusiasti e fedeli che attraversavano i confini statali votando di qua e di là, più volte, il loro candidato. Il provvedimento del 1845 pose fine a tutto ciò.

02 county election bingham 1852

Dal 1848 in poi ci sarebbe stato un unico Election Day presidenziale, punto e basta. (Nel 1872 un’altra legge stabilì che in quel giorno dovevano tenersi anche le elezioni per il Congresso federale.)

La scelta di novembre (e inizio dicembre) per simili operazioni era legata a fattori istituzionali e culturali un po’ da antico regime. Era questo il periodo dell’anno in cui le assemblee legislative degli stati erano riunite in sessione; e naturalmente bisogna ricordare che all’inizio della storia i grandi elettori erano designati dalle assemblee statali, non eletti dal popolo. Questo era anche un momento di pausa nel ciclo economico stagionale di una società in gran parte agricola: il raccolto autunnale si era concluso, i rigori dell’inverno non si erano ancora dispiegati, i politici potevano ancora muoversi con qualche conforto nel grande paese.

La scelta del martedì era solo leggermente più moderna. Dagli anni quaranta dell’Ottocento i grandi elettori erano ormai eletti dal popolo, a suffragio universale maschile, da milioni di cittadini. Gli elettori dovevano spesso fare viaggi importanti per raggiungere i seggi aperti nei villaggi, magari nella cittadina capitale di contea. Non potevano certo andare la domenica, che era il giorno del Signore. E neanche il mercoledì, che era il tradizionale giorno di mercato. Martedì era perfetto, consentiva anche a chi veniva da lontano di muoversi il giorno prima, lunedì. L’America era quasi tutta rurale, e l’elettore ideale era un farmer maschio.

La scelta di un unico giorno era invece compiutamente moderna, razionale, efficiente. Acquistò anche un forte significato simbolico. Il voto divenne un atto collettivo sincronizzato in tutto il paese; e grazie alla crescente velocità di comunicazione (le ferrovie, il telegrafo) e al nascente giornalismo popolare (la penny press quotidiana) gli elettori stessi ne divennero consapevoli. Era il popolo sovrano che si riuniva tutto nelle stesse ore per scegliere i propri governanti, a livello nazionale, in una nazione cresciuta a dimensioni continentali. Era insomma, come cantò più tardi con democratico ottimismo Walt Whitman, America’s choosing day:

“Il giorno in cui l’America fa la sua scelta / il senso profondo non nell’eletto – l’atto in se stesso ciò che più conta, la scelta quadriennale.”

* In un ulteriore twist di immaginazione & sfida alla pazienza, il giorno delle riunioni dei grandi elettori fu spostato in avanti nel 1887, al secondo lunedì di gennaio, e poi di nuovo indietro nel 1936 – alla data attuale, e cioè al primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre (quest’anno sarà il 19 dicembre). In entrambi i casi fu cancellata la clausola dei 34 giorni. Ma la data di Election Day è rimasta quella prevista dalla formula del 1845.

 

Arnaldo Testi

Sempre sull'Election day - perché non ci sono ormai più gli Election day di una volta! - potete anche leggere qui un altro post da Short Cut America.

Un piano per recuperare l’orto-frutteto del Granduca Leopoldo II di Lorena e per realizzare un giardino delle letture nell’area dell’ex ILVA di Follonica. Autore del progetto è Kun Sang, studente della laurea magistrale del dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa, che ha illustrato la sua proposta al Museo Magma di Follonica lo scorso 28 ottobre nell’ambito degli “Incontri d'autunno” organizzati dall'Irta Leonardo (Istituto Ricerca sul Territorio e l'Ambiente), un ente di ricerca di cui fanno parte alcuni dipartimenti dell’Università di Pisa e della Scuola Superiore Sant’Anna.

TizianoArrigoni KunSang GiulianaBiagioli

Kun Sang ha svolto il suo lavoro di progettazione paesaggistica nell’ambito del piano di gestione del Museo Magma di cui l’Irta è responsabile e della convenzione con l’Università di Pisa per lo svolgimento di tirocini curriculari. Il suo progetto è partito dal recupero dell'orto del Granduca, uno spazio recintato da un muro dietro la Torre dell'Orologio nel comprensorio ex-Ilva, dove verso il 1835, ai tempi di Leopoldo II, fu creato un orto-frutteto.

 orto granduca copy

“Kun Sang ha utilizzato dei resoconti storici e scientifici dell'epoca per risalire alle piante che vi si trovavano e progettare il recupero in base alle testimonianze storiche – ha spiegato la professoressa Giuliana Biagioli dell’Università di Pisa che ha seguito il progetto come tutor - poco infatti si conosce della storia di questo orto, che soprattutto negli ultimi decenni è rimasto totalmente abbandonato”.

Accanto al recupero di questo spazio storico, lo studio di Kun Sang ha riguardato anche la creazione del giardino di lettura vicino alla Biblioteca della Ghisa. In questo caso il progetto è stato elaborato sulla base dei suggerimenti dei lettori della biblioteca che per tre settimane durante l’estate 2016 hanno risposto ad uno specifico questionario sulla creazione del giardino e sulle caratteristiche desiderate.

---

Foto in alto, da sinistra Tiziano Arrigoni, il referente scientifico del Museo MAGMA, Kun Sang, Giuliana Biagioli

Foto a sinsitra, il master plan dell'orto-giardino del Granduca realizzato da Kun Sang

È stato conferito allo storica della Scienza Italiana, la professoressa Paula Findlen, il Premio internazionale Galileo Galilei dei Rotary Club Italiani, giunto alla 55esima edizione. Contemporaneamente, è stata assegnata allo scienziato Giovanni Losurdo l'undicesima edizione del Premio Galileo Galilei per la scienza. La cerimonia di conferimento si è tenuta sabato 1° ottobre, nell'Aula Magna dell'Ateneo

galileo3
 La professoressa Paula Findlen, docente della Stanford University, ha contribuito a riportare al centro dell’interesse internazionale alcuni aspetti essenziali della cultura scientifica italiana di età moderna. Grazie alle sue pubblicazioni, che riprendono gli approfondimenti degli studiosi italiani di grande prestigio, è stata riproposta un’immagine

innovativa del nostro Rinascimento e delle sue esperienze in campo scientifico.

Il professor Giovanni Losurdo è primo ricercatore dell’Infn di Pisa e già dottore di ricerca in Fisica alla Scuola Normale. Lavora allo studio delle onde gravitazionali sin dalla sua tesi di laurea, vantando collaborazioni con i principali laboratori coinvolti nel settore che fanno capo al Caltech, al Mit, alla University of Western Australia, alla Tokyo University e alla University of Glasgow.

La professoressa Findlen ha inoltre rivolto una particolare attenzione al ruolo delle donne nella scienza italiana con uno sguardo di carattere sociale e intellettuale. A valutarla meritevole del premio Galilei, all’unanimità, sono stati Marco Beretta, Massimo Bucciantini, Maria Conforti, Claudio Pogliano e Saverio Sani.

Dal 2006 il professor Losurdo ha coordinato le operazioni che hanno dato vita ad «Advanced Virgo», il progetto pensato per rendere dieci volte più sensibile l’interferometro «Virgo» divenendone nel 2009 project leader. A decretare la sua vittoria, su altre decine di candidati, sono stati Alexander Blumen, Muhsin Harakeh, Claude Le Bris, B.S. Sathyaprakash, Jean Yves Vinet e Saverio Sani (segretario del premio) che hanno designato all’unanimità l’insigne scienziato.

 

 

galileo2

 

 

 

 

galileo1

 

 

Questo sito utilizza solo cookie tecnici, propri e di terze parti, per il corretto funzionamento delle pagine web e per il miglioramento dei servizi. Se vuoi saperne di più, consulta l'informativa