È morto a Roma il grande regista Vittorio Taviani. Originario di San Miniato, aveva 88 anni ed era malato da tempo. Con il fratello Paolo ha firmato capolavori della storia del cinema italiano, da "Padre Padrone" (Palma d'oro a Cannes nel '77) a "La Notte di San Lorenzo" a "Caos" fino a "Cesare deve morire" (Orso d'Oro a Berlino).
Iscritto con il fratello Paolo all'Università di Pisa, Vittorio Taviani ha trascorso gli anni della gioventù nella Pisa dell’immediato dopoguerra, entrando in contatto con gli ambienti culturali e universitari della città, che ne hanno stimolato la passione per il cinema. Sempre a Pisa, nel Palazzo della Sapienza, i due fratelli hanno fatto le prime esperienze cinematografiche, girando alcune riprese del documentario “Curtatone e Montanara”. “Una mattina di sole – hanno ricordato successivamente i due registi – con la nostra piccola troupe occupammo i cortili della Sapienza per piazzare i binari di un lungo carrello... Ci passavano accanto studenti e professori. Alcuni di loro, in passato, avevano incoraggiato la nostra scelta, così irregolare, di fare cinema. Altri avevano scosso la testa e il tono della nostra voce sfiorava la provocazione quando gridammo: "Azione!". Il carrello corse a ritroso, abbandonò le logge della Sapienza per avventurarsi verso le strade di Pisa, le piazze, i lungarni”.
L'11 marzo 2008 Paolo e Vittorio Taviani hanno ricevuto la laurea specialistica honoris causa in “Cinema, teatro e produzione multimediale” da parte dell’Università di Pisa, tenendo una Lectio Magistralis dal titolo "Itinerari: dalla Sapienza allo schermo". La chiusura della Lectio - dedicata ai familiari, ai compagni di vita, agli amici e ai collaboratori che li avevano accompagnati nel cammino e che ora non ci sono più - rappresenta il messaggio migliore con cui l'Ateneo pisano vuole salutare questo grande Maestro: "Ora siamo più soli, com’è giusto alla nostra età, e proviamo malinconia. Ma quelle ombre – lo vogliamo credere – ci stanno qui intorno ed è come se sentissimo il loro bisbigliare. Alcune parole giungono sino a noi. Dicono: imparate a guardare le cose anche con gli occhi di chi non c’è più. Vi sembreranno più sacre e più belle”.
Pubblichiamo di seguito il testo della Lectio Magistralis di Paolo e Vittorio Taviani dal titolo "Itinerari: dalla Sapienza allo schermo" e la biografia del Maestro.
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Itinerari: dalla Sapienza allo schermo
Questa è stata la nostra Università. Anni di formazione, forti. Anche se pochi sono gli esami che abbiamo dato. È stata la nostra Università perché qui sono nate le prime sollecitazioni al nostro lavoro nel cinema. E di questo oggi vogliamo parlarvi. Ma prima dobbiamo confessare una certa inquietudine, senso di colpa misto a orgoglio, nell’accettare una laurea che non avremmo mai immaginato. Invece siamo qui. Coincidenze? Chissà. Tutto può accadere nella vita e nei romanzi – diceva Dickens – anzi le coincidenze, forse, sono la legge della vita.
Questa Università ci ha ispirato Curtatone e Montanara, uno dei nostri primi documentari andato perduto, uno dei pochi da noi amato. Una mattina di sole, con la nostra piccola troupe, occupammo il cortile della Sapienza per piazzare i binari di un lungo carrello. “Mancini” - si chiamava il mitico carrello di legno usato dal cinema di allora. Anche i binari erano di legno – l’agile steady cam non era stata ancora inventata – e il lavoro dei macchinisti era complesso e fragoroso. Quel fragore era musica di Mozart per le nostre orecchie. Ci passavano accanto studenti e professori. Alcuni di loro, in passato, avevano incoraggiato la nostra scelta, così irregolare, di fare cinema. Altri no, avevano scosso la testa. E il tono della nostra voce sfiorava la provocazione quando gridammo: “Azione!”. Il carrello corse a ritroso, abbandonò le logge della Sapienza per avventurarsi verso le strade di Pisa, le piazze, i lungarni. Iniziava così il viaggio degli studenti quarantotteschi verso il nord. Attraversava le campagne toscane e lombarde, si soffermava sulle sponde del Po, e finalmente si arrestava sui prati e le valli di Curtatone e Montanara, teatro della battaglia contro gli austriaci. Noi due inventammo una lunga soggettiva: “la macchina da presa – ci dicevamo con la giovanile ebbrezza delle prime intuizioni – diverrà l’occhio degli studenti rivoluzionari alla scoperta del mondo della libertà, alla scoperta di se stessi e le loro voci, in colonna sonora, leggeranno le lettere inviate a casa, i commenti, i pensieri più segreti dettati dal viaggio. Quel lungo carrello aumentò la sua forza espressiva quando in moviola aggiungemmo la musica. Raggiunse l’acme col dilagare del coro “Guerra, guerra!” dalla Norma di Bellini. Tornavamo a casa eccitati dalla scoperta – ovvia forse, ma non per noi alle prime armi – delle possibilità inesplorate nel rapporto immagine – suono.
Ci confidavamo di provare – come dire – la sensazione di un aumento della nostra energia inventiva. Provammo la stessa emozione quando, anni dopo, in San Michele aveva un gallo, usammo ancora il “Guerra, guerra!”. Ancora su un interminabile carrello irrealistico che si allontana da Giulio, il protagonista, invade e dilata la cella in cui è prigioniero e la trasforma in un teatro d’opera immaginario. Fin dagli inizi presentivamo l’importanza che la musica avrebbe avuto per noi nel fare cinema. Musica intesa non come commento umilmente parallelo alle immagini, ma come struttura stessa del film. Per noi, l’abbiamo detto altre volte, il cinema è l’erede – a vent’anni dicevamo la summa! – di tutte le forme d’arte che l’hanno preceduto. E quella più vicina a noi è la musica.
Perdonate il tono un po’ agiografico: i ricordi fanno questi scherzi.
Il documentario, che per noi fu importante, sicuramente presentava i limiti di due registi che avevano troppo da dire e poco tempo a disposizione (per legge un documentario non poteva durare più di dieci minuti). Ecco, oggi possiamo finalmente rivelare un piccolo segreto: quelle lettere scritte dagli studenti, non esistono in nessun archivio storico, le abbiamo inventate. Tutte. Erano lettere che avremmo scritto noi due alle fidanzate, agli amici, ai maestri più amati. Nessuno osò metterne in dubbio l’autenticità, nemmeno alcuni storici, stupiti di fronte a quel materiale inedito e forse vergognosi della loro innocente ignoranza. Noi pensavamo e pensiamo che quelle lettere riportassero in vita gli studenti pisani, rendessero attuali i loro pensieri, ci dessero la possibilità di far diventare contemporaneo quell’avvenimento del 48. Un falso, sì. Ma già da qui potrebbe nascere un’indicazione del nostro modo di lavorare, una risposta alle domande di tanti giovani che vogliono sapere di noi, fare e scrivere cinema. Non pochi nostri film sono ambientati in epoche passate, alcune volte la scelta è dovuta al caso, altre alla ricerca di un’età storica affine al presente. Usiamo storie di ieri per interrogarci su quelle di oggi: la ricerca della verità non significa farsi condizionare dall’attualità, dalla cronaca riduttiva a cui ci costringe la televisione. La necessaria ricerca storica che precede la scrittura del film, ci ha dato e ci dà l’eccitante possibilità di leggere e studiare documenti e testimonianze dell’epoca in cui agiscono i personaggi del film, di sprofondare nel passato.
Poi dimentichiamo. Vogliamo dimenticare tutto durante la sceneggiatura e la lavorazione. Di più: la verità storica viene spesso tradita in nome di un’altra verità. Quella del film, quel microcosmo rappresentato dal nostro racconto.
“Non mostrerò questo film ai miei studenti, voi non aiutate a capire la storia del nostro paese” – così ci rimproverò una volta un insegnante, e non è stato l’unico, durante un dibattito dopo la proiezione, ci sembra, di Allonsanfan – che bisogno c’era d’inventarvi la storia? Voi, così, create una gran confusione”. La sua protesta era sincera e accorata. Non ce la sentimmo di aggredirlo - la voglia era tanta – e chiedemmo aiuto a quegli autori che probabilmente lui insegnava a scuola, i grandi maestri che ci hanno indicato la strada dei falsi storici. Ricordammo, come esempio, le rappresentazioni, le più diverse, del personaggio storico di Giovanna D’Arco: strega per Shakespeare in Enrico VI, ribelle e popolare in Brecht, orgogliosa in Bresson, fino alla Giovanna tutta occhi, impaurita e vincente in Dreyer. Qual era la vera Giovanna? Tutte e nessuna. Ogni autore le ha affidato i propri sentimenti, l’ha usata per rappresentare il suo tempo.
Anche i personaggi storici dei nostri film assumono spesso le fisionomie di uomini e donne della nostra vita. Di ognuno di loro costruiamo le biografie, dalla nascita al presente, oroscopi compresi. Non immaginate che sensazione di libertà fare indossare il costume agli amici, ai nemici, che tornano a vivere alcuni frammenti della loro vita e a viverne un’altra, quella che diamo a loro.
Quel breve documentario – ce ne rendiamo conto oggi – era un’inconsapevole anticipazione delle successive opere della maturità, a cui lo unisce l’impazienza di futuro, dei protagonisti, il disagio di vivere in un presente meschino, anacronistico, il desiderio di felicità in un mondo diverso.
La commissione dei premi di qualità bocciò il lavoro. Motivazione: troppo astratto. Concreta fu la nostra delusione… e una certa vergogna di noi stessi: che abbiano ragione? Eravamo convinti d’aver espresso qualcosa di diverso, di bello forse. Nel nostro donchisciottismo non avevamo dubbi che avrebbe trovato un’eco in chi lo vedeva. Chi poteva immaginare, allora, quanti avversari “naturali” avremmo incontrato sulla nostra strada, allergici allo stupore per ogni lampo di novità.
Abbiamo detto che le nostre riflessioni, oggi, avranno tutte il loro avvio qua, dentro queste mura della Sapienza. Manteniamo l’impegno e così ci troviamo sul portone centrale, alle una di una domenica di più di cinquanta anni fa. Avevamo visto Germania anno zero di Rossellini nell’aspra copia in tedesco. Una proiezione abbastanza anomala dell’Università Popolare, qui per quel giorno ospite. Con un certo disagio ci decidemmo a prendere la strada di casa. Ma c’era qualcosa che ci feriva la vista. Attraversammo la città deserta, tagliata da luci e ombre come in una tela di De Chirico. Amavamo l’enigma delle sue piazze toscane, ma oggi la luce rifiutava ogni mediazione culturale, perché era una luce cattiva, senza pietà. Era la luce di certe sequenze del film che avevamo visto, il suo bianco segno rivelatore. Nel film di Rossellini la luce non accettava mediazioni perché il nostro mondo aveva conosciuto l’abisso, il non umano e ora noi dovevamo fissarlo, rifiutando ogni zona d’ombra, perché mai più fosse dimenticato. D’altra parte già nel precedente Roma, città aperta, nella sequenza della morte della Magnani, insieme al suo grido e al suo braccio proteso, il bianco accecante della tonaca da chierichetto del figlio che dentro quel bianco scalcia e urla, rimane il segno più forte della sequenza, uno sgomento che ad ogni visione si rinnova.
Tornando alla lontana domenica di Germania anno zero anche quella mattina nostra madre ci aspettava. Con lei avevamo uso di parlare di quanto avevamo visto o letto. Ma quella volta le dicemmo…scusaci…con le parole non riusciamo a dirti…a farti capire…a farti vedere. C’era in noi quel tanto di esaltazione morbosa che accompagna la convinzione di una nuova scoperta; e noi due ora sapevamo che nel linguaggio del cinema uno dei primi segni è la luce.
Dopo più di trenta anni, nella nostra maturità di registi, sentimmo che era venuto il momento di far riemergere il passato di sangue e in particolare quell’estate del '44 sui colli della nostra San Miniato, che vide la strage del Duomo e il nostro esodo verso i liberatori. Ci rendemmo subito conto come il tempo e la coscienza popolare avevano elaborato i molti lutti e il senso di una vittoria sempre da difendere. Il racconto orale aveva trasformato quel passato in una specie di chanson de geste o di una fiaba. Gli occhi di una bambina sono spesso gli occhi del film. Il tempo della pietà era tornato, e la luce non poteva essere quella cattiva del film di Rossellini. Nel nostro film la luce cerca una mediazione tra il paesaggio, gli eventi e la natura umana, una riconciliazione nel segno di una pacata luminosità. Pur su scene di quotidianità feroce, la luce tende a quella limpidezza che è anche promessa di futuro, e si permette perfino un’ ambiguità scherzosa: “Piove e c’è il sole”, dice la giovane donna con il suo bambino in braccio. È stata appena liberata e ora guarda stupita e divertita quella strana luce tra sole e pioggia che brilla sulla sua gente in festa.
Se la luce di un film è il primo segno visibile del suo senso, il senso della Notte di San Lorenzo era rivolto in modo particolare ai giovani di quegli anni ottanta, che nella palude di una società dai fremiti oscuri, consumavano la loro vita “vivendo e vivendo a metà” come dice Eliot. Avevano bisogno, avevamo tutti bisogno di far riemergere la figura dell’uomo in tutte le sue possibilità. Per questo abbiamo sempre sentito il nostro film non come un film storico o di memoria – tantomeno di nostalgia – ma come il più contemporaneo che in quegli anni potessimo tentare di fare.
“La luce è il cinema. Stop.” Fellini è categorico. A noi è capitato di parlarne una volta con Michelangelo Antonioni, coinvolto con noi in uno strano caso. Tanto lui che noi avevamo trovato ispirazione nelle isole Eolie, uno dei paesaggi più assoluti del mondo. Un paesaggio soprattutto come protagonista dei nostri due film: stesse immagini, stessi scogli, stessa profondità del mare, stesso orizzonte. Eppure la luce così diversa nei due film fa di loro due pianeti diversi, due opposti luoghi dell’anima. Non è questione di bianco e nero (L’avventura) o di colore (Kaos). La luce grigia nell’indimenticabile film di Antonioni incupisce le cose e le persone. Le linee fantasiose degli scogli si trasformano in oscure masse acuminate, il mare in nemico di cui diffidare. Il giorno sembra ridotto a essere la vigilia della notte, quando nell’ora più ambigua lo sgomento diventa certezza della propria estraneità a se stessi e al mondo. In Kaos le stesse immagini, gli stessi spazi: ma il cielo si è spalancato e la luce rende più azzurro l’azzurro del mare, più bianco il bianco delle pomici. E’ questa esplosione di luce che spinge i piccoli fuggiaschi, che sulla barca vanno verso l’esilio, a scendere sulla spiaggia e dalla cima dell’altura volare giù dentro il mare. Un viaggio di lutto che inaspettatamente si trasforma in un momento di felicità: solo per pochi istanti, forse, ma quanto basta a quei bambini a riprendere con più forza il loro viaggio.
In questo ultimo anno abbiamo amato in particolare un film di Clint Eastwood Lettere da Iwo Jima. Anche questo è un film che si fissa nella memoria e rivela il suo senso nel rapporto con la luce. Ma questa volta come sottrazione della luce, quasi fino alla sua negazione.
È in un mondo di tenebre infatti che sono condannati a vivere i soldati giapponesi - molti sono giovani – che difendono il colle di Iwo Jima contro l’avanzata sanguinosa e vincente degli americani.
Sono penetrati nelle viscere del terreno, dove hanno costruito grotte, trincee, cunicoli. Hanno ricevuto un unico ordine: combattere comunque, finchè l’ultimo di loro avrà trovato in quelle tenebre la sua tomba. Ci viene in mente un detto che la saggezza popolare ha fissato nel linguaggio. Suona così: la luce è speranza, togli la luce, togli la speranza. Senza speranza, nell’oscurità i giovani giapponesi si ostinano a scrivere le loro lettere d’amore e di addio, sapendo che non avranno mai risposta. È un film nel segno del lutto, che Eastwood e il suo sceneggiatore affidano alla nostra pietà.
Facciamo un passo indietro.
Questa è stata la nostra Università perché qui, ancora ragazzi, scoprimmo la “Storia del cinema” di Pasinetti. Scoprimmo che il cinema aveva una sua storia come la letteratura, la pittura, le altre arti studiate al liceo. In quegli anni – pensate – ci davano ancora temi come “il cinema può essere arte?”. Fa sorridere la nostra ignoranza della letteratura cinematografica passata, ma erano gli anni del dopoguerra e le nuove riviste specializzate vennero dopo. "Hollywood” era l’unico rotocalco che si occupava di cinema, di attori, di gossip. Pubblicava anche recensioni dei lettori e uno di noi era tra quelli. Il volume di Pasinetti divenne il nostro vangelo cinematografico: occhi avidi scorrevano le righe che ci parlavano di Eisenstein, Ford, Renoir. La mattina entravamo in questa Università insieme agli studenti veri. Nel silenzio della biblioteca studiavamo con serietà, una serietà lieta, sentimento sconosciuto nell’indolenza dei banchi di scuola. La ricerca di sé, così viva e spesso angosciosa in un ragazzo, aveva trovato una sua strada. Trascrivemmo tutto il libro o quasi… forse in qualche nostra cantina esiste ancora il manoscritto.
La nostra fratellanza si saldò. Iniziava il viaggio insieme. Due nature diverse. Un unico sogno. Un dono del caso, misterioso a noi stessi, ribelle ad ogni tentativo di razionale spiegazione.
Col desiderio struggente di entrare in confidenza con la famiglia del cinema, ci iscrivemmo al cineclub pisano fondato da un pioniere, Mario Benvenuti e animato spesso dagli interventi appassionati di Valentino Orsini che diverrà il nostro grande amico e collaboratore, autore in cinema. Contavamo i giorni che mancavano alle proiezioni, come si aspetta l’appuntamento con una innamorata. Si, ci siamo innamorati di tutti i film che vedevamo e dei registi che già consideravamo padri, fratelli. Ci davano la consapevolezza di vivere rispecchiandoci in loro. Verrà più tardi il desiderio di misurare se stessi su quei maestri. Diciamo la verità, non tutti i film erano così belli, così assoluti, ma quando si scopre un mondo non ci sono vie di mezzo. Il nostro entusiasmo alcune volte ci mise in imbarazzo: proiettarono al cineclub Gli ammutinati dell’Elsinore di Pierre Chenal. Non era un gran film, ma noi riuscimmo a scovare alcune inquadrature da amare. In quei giorni al cinema Astra veniva programmato Gli ammutinati del Bounty con Clark Gable e Charles Laugthon. Un film di grande impatto spettacolare che travolse il pubblico e anche noi. Ma nel paragone tra i due film, durante furiose discussioni, noi difendevamo con accanimento Chenal contro il Bounty. Mentivamo a noi stessi senza rendercene conto. Oggi, quando amici della nostra generazione ci chiedono:”come fate a sopportare certi giovani critici e registi, l’arroganza che mettono nel mandare all’inferno o in paradiso questo o quel film?” Rispondiamo: “sarebbero insopportabili se noi, alla loro età, non fossimo stati peggio di loro!”.
La conoscenza del cinema ci fece traditori. Traditori di ogni forma d’arte che non fosse cinema. Ci proiettava oltre la cultura umanistica, pur grande e amata, ma degradata secondo noi a scolastico, logorato patrimonio borghese. Si aprivano nuovi orizzonti. Perfino l’aspetto tecnico legato all’arte cinematografica, ai suoi strumenti: macchina da presa, pellicola, obiettivi, luci, rappresentava una novità rivoluzionaria. Anche oggi le nuove generazioni sono attratte dalle più avanzate tecnologie. Si infiammano, esagerano anche. Ma la fantasia, se c’è, avrà la forza di dominarle.
Vivevamo di cinema e basta. Pisa e la sua solare architettura - così presente nello stile dei nostri film, come hanno sottolineato alcuni critici – in quei giorni si confondeva con un’idea irriverente della città: le piazze, le strade erano legate per noi all’ubicazione delle sale cinematografiche. I Lungarni al Supercinema, piazza San Paolo all’Odeon, corso Vittorio al cinema Italia, piazza Carrara al cinema-teatro Rossi, qui, a pochi passi dall’Università. Proprio al Rossi vedemmo Ladri di biciclette. Pioveva quel pomeriggio. Avevamo il viso bagnato di pioggia, ma anche di lacrime. “Lacrime estetiche!” ci scherzavano i nostri amici, commossi come noi.
Di De Sica ci affascinava la novità di linguaggio tra documento e finzione, la cruda tenerezza con cui ci parlava della tragedia del ladro di biciclette, mediata a sprazzi dall’innocente comicità del bambino e dal formicolio dei personaggi: un’umanità prima d’allora mai apparsa sullo schermo, un coro che cammina accanto ai due protagonisti, commenta, ironizza, piange con loro. Forme nuove per rappresentare la tragedia, non sulle tavole del palcoscenico, ma su quelle della realtà quotidiana, suggerendo, a suo modo e senza enfasi, l’urgenza di un rinnovamento sociale.
A Orson Welles, genio shakespeariano dalla violenta espressività cinematografica, così lontano dall’autore italiano, fu chiesto: “Il regista europeo che più ami?”. “De Sica” rispose senza esitazioni. Gli farà eco anni dopo Woody Allen: "Il film della mia vita? Ladri di biciclette”.
Vedemmo e rivedemmo il film. Lo andavamo a cercare, in bicicletta, nelle sale dei paesini nei dintorni di Pisa. Volevamo appropriarci della sua verità nascosta. In quegli anni non esistevano i dvd. Decidemmo di riscrivere a memoria i dialoghi e i movimenti di macchina: era l’unico modo per far parte del lavoro di De Sica e di Zavattini, condividere le loro intuizioni. Quando confrontammo la nostra ricerca con una nuova visione del film, restammo spiazzati dalla poetica semplicità delle soluzioni, in contrasto con la nostra esagerazione, nel tentativo di riprodurre una sequenza di particolare suggestione emotiva. Ricordiamone una. Bruno, il figlio, ma più che figlio, l’amico dolce e brontolone del padre alla ricerca della bicicletta, è esausto. La giornata è stata lunga e senza risultato. Il padre si è allontanato. Gli occhi del bambino improvvisamente sono attratti da qualcosa che sta accadendo, qualcosa di insopportabile. Cosa vedono? Un ladro che sta rubando una bicicletta, i passanti lo inseguono, lo afferrano, lo picchiano. Quel ladro è suo padre. Un lungo, lunghissimo carrello corre intorno al P.P. di Bruno, la macchina da presa esalta così lo stupore straziato del bambino… Abbiamo detto un lungo carrello. Questo annotammo. No, il carrello è breve, brevissimo: la nostra commozione, nel ricordo, aveva dilatato il tempo dell’inquadratura. Fu una lezione di regia: studiammo con più cura la sequenza, la scansione delle inquadrature, le rime interne, l’inseguirsi delle emozioni, il loro montaggio, fino all’esplosione di quel carrello, di quel P.P., con cui De Sica ha raggiunto il cuore degli spettatori di tutto il mondo, senza ricorrere a virtuosismi della macchina da presa. Con un carrello, si, ma di pochi metri.
Molti giovani apprendisti di cinema ci chiedono: voglio fare il regista, da dove comincio? Aiutatemi, datemi un consiglio. È impossibile fornire ricette e non siamo adatti a fare i maestri. Voi – ed è una conquista, impensabile nei nostri anni giovanili – i maestri li avete qui, nell’Università e amano il cinema come voi l’amate. Ma, ripensando alla nostra esperienza, un suggerimento lo possiamo offrire, uno fra tanti. Un possibile inizio. Questo: scegliete tre o quattro film che più amate. Vedeteli e rivedeteli. E rivedeteli ancora: come ladri che spiano i movimenti di una banca da derubare. A poco a poco, ad ogni nuova visione scoprirete alcuni segreti del vostro amato regista. Non esitate ad abbandonarvi all’ammirazione: è un sentimento umile e forte, vi aiuterà a capire. Poi ricominciate tutto da capo, disfacendo e rifacendo il già fatto. Cercate in voi stessi. Noi chiediamo di essere stupiti dal nuovo che la vostra età vi porta in dote. Affronterete una lunga fatica, appassionata quanto aspra. Vi accorgerete che per realizzare un documentario, un film, non basta essere poeti, dovrete trasformarvi in uomini d’affari, cercare i finanziamenti, usare furbizia e menzogne, incontrare umiliazioni e guai. Affrontateli senza vergogna. Amerete questo mestiere, questo gioco, perché fare spettacolo è anche gioco. Ci dà la possibilità di continuare i giochi dell’infanzia, ricchi di mistero e fantasia. Noi due lo amiamo questo mestiere, oggi, dopo tanti anni, forse più che ieri. Fa soffrire, certo, ma ne vale la pena, per vivere quegli attimi di felicità in cui si vede nascere, dalle proprie mani, una sequenza più coinvolgente, per audacia e verità, di come era stata immaginata. E siate pronti: non vi fate sorprendere dal puntuale, inesorabile sentimento di relatività che ogni regista avverte di fronte al film finito. Ricordate il proverbio: non si viaggia per arrivare, ma per viaggiare.
E per l’ultima volta torniamo qui, nella nostra Università.
È l’alba di un giorno del 1953, in una delle aule che danno sul cortile. L’aula, trasformata in seggio elettorale, è gremita di gente eccitata ed esausta. Giovani staffette popolari corrono attraverso la città a portare nei vari seggi la notizia ancora non ufficiale: la legge elettorale voluta dal potere non è passata. Il tentativo autoritario di relegare la sinistra in un angolo è stato sconfitto. Una vittoria relativa certo, ma pur sempre una vittoria. Anche qui, in questo seggio, euforia. Uno di noi due è tra questa piccola folla, come rappresentante di lista del Partito Comunista. E ora, dopo tre giorni corre finalmente fuori per portare la notizia. Bagnato da una pioggia fitta che lo rinfresca fin dentro le ossa, attraversa le vie deserte, ma che al suo orecchio risuonano delle voci di una comunità che veglia per salutare il nuovo giorno, come una conquista di libertà. Lui si sente parte di quel coro, di quella comunità, ed è felice. Ugualmente bagnato e felice gli va incontro suo fratello, che ha appena terminato lo stesso lavoro al suo seggio.
Ecco: abbiamo rievocato quell’alba del 1953, con l’impeto un po’ ingenuo di certi momenti collettivi, perché così possiamo tornare a parlare di cinema, del nostro cinema, e del rapporto così spesso equivocato tra cinema e politica.
Noi, al di là delle teorie, vogliamo qui rendere testimonianza della nostra esperienza personale, che è già anomala alla sua partenza: è stato il cinema – e non viceversa – a portare noi due, di famiglia mazziniana ma pur sempre borghese, ad aprire lo sguardo sull’universo rosso e sul suo popolo. Sfidiamo il paradosso precisando che più che dai singoli film la spinta ci è venuta dalla forza misteriosa del loro linguaggio. D’altra parte, negli anni del nostro dopoguerra guerreggiato, era tutto un po’ paradossale. In quel clima succede che un giorno noi due, giovani come tanti altri, aperti ad ogni possibilità di nuovo, ci troviamo di fronte a una immagine come questa: su una grande distesa bianca di neve, sei cavalli dalle grandi criniere, ripresi ora in P.P., ora in un carrello sempre più veloce – è la sequenza di un vecchio film muto – trasportano una barella su cui, circondato dai suoi compagni, sta morendo un combattente della rivoluzione: ha chiesto di essere sepolto nella sua terra che non rivede da anni. Il tempo è poco e i compagni incitano i cavalli: bisogna arrivare in tempo, muore un nostro eroe della rivoluzione. Correte, correte. Immagini di impronta realistica. Ma improvvisamente lo scarto: i cavalli rispondono. “Vi capiamo”. C’è nobiltà e consapevolezza, mentre la didascalia ripete: “Vi capiamo, nostri padroni e fratelli”. La loro corsa si fa ancora più violenta: “Voliamo con tutte le forze della nostre ventiquattro gambe”. Corrono perché la rivoluzione li chiama a onorare in morte un loro fratello. La sequenza si fa fantastica, folle, in nome di una commozione che unisce uomini e animali.
Un altro film, un’altra immagine: questa volta è un piccolo cavallo bianco, attaccato a una carretta che sta cercando disperatamente di attraversare il ponte apribile nel centro di Pietroburgo: una Pietroburgo squassata dalle ondate di rivolta e dalla brutalità della repressione. Non si può più passare, perché il ponte si è aperto e le due parti stanno salendo sempre più in alto. La carretta, staccatasi dal cavallo, scivola giù in acqua. Dall’alto scivolano giù uomini e cose. Solo il cavallo bianco, chissà come attaccato a una trave, rimane lassù, sulla parete a picco. Nelle strade intorno al ponte si ripetono inquadrature di corpi umani che uccidono, che vengono uccisi. A contrasto, più volte, in campo lungo riappare la tenera figura del cavallo bianco, solo sulla cima della parete deserta. Un’immagine tragica e assurda: anche questa è rivoluzione. Poi il cavallo precipita e scompare nell’acqua del fiume.
Un po’ sbalorditi ci interrogavamo sull’impeto che aveva potuto ispirare tanta forza fantastica nell’animo di giovani uomini che facevano i registi, in un sodalizio dove l’uno si riconosceva nell’altro: erano i figli della terra di Tolstoi e Dostoevskij. Dallo schermo ci arrivava, insieme alla conferma del linguaggio estremo del cinema, la testimonianza della forza dell’utopia che stava correndo nel mondo, l’utopia comunista.
Intanto i grandi film del neorealismo rendevano più impaziente il nostro bisogno di fare cinema e insieme sollecitavano la nostra responsabilità di cittadini: ci riconoscemmo nel popolo di sinistra.
Non ci siamo mai nascosti però che questo empito giovanile poteva portare a una esaltazione acritica delle nostre scelte artistiche e politiche. Il cinema ci è venuto ancora incontro con Rossellini, proponendoci il limite, l’ambiguità della condizione umana. Molti di noi ricordano il finale di Paisà: da una parte i corpi dei partigiani con le mani legate dietro la schiena e la macchina da presa che sta accanto a loro mentre vengono gettati in acqua, e ogni tonfo è una ferita acustica; dall’altra il silenzio indifferente del paesaggio selvaggio della palude, che la macchina da presa stenta a riprendere in totale: cielo e terra si confondono all’orizzonte, il presente si dissolve nel passato. L’immensità della natura e l’ambiguità del tempo ridimensionano le vicende umane, anche questa evocata da Rossellini. Abbiamo voluto usare le parole alte che avrebbe potuto pronunciare un nostro maestro, grande e schivo. Abitava a pochi passi da qua in via Santa Maria. Siamo passati davanti alla sua casa, ieri. La casa di Sebastiano Timpanaro. Ci avevano colpito nel profondo il confronto, il contrasto che lui stabiliva tra i ritmi frenetici dell’uomo storico e il ritmo dell’uomo biologico, così lento da apparire inesistente. I due ritmi convivono in noi: qui forse una delle ragioni della fatica e del dolore del vivere.
Qualcuno ha detto che probabilmente anche per questo nei nostri film si scontrano due esigenze opposte ugualmente pressanti: la prima è la complicità con l’uomo, la fiducia e lo stupore per la sua creatività, nel bene e nel male, per l’unicità di ogni destino individuale; e questo significa per noi che la macchina da presa sta addosso ai personaggi, ne fissa il volto, ne ascolta il respiro. L’altra esigenza nasce dalla consapevolezza della sua fragilità, della sua piccolezza nei confronti di una realtà più complessa e per molti versi misteriosa, e questo significa per noi cercare di distaccarci e di ridimensionare visivamente i nostri personaggi, inquadrandoli in campi lunghi e lunghissimi.
Da queste contraddizioni e dalle molte altre che si consumano vivendo – noi crediamo – nascono le nostre storie. Ma nascono solo quando qualcosa di imponderabile, certe volte al di là della nostra volontà accende quel motore segreto che si chiama “lo spirito del racconto” e che lascia che la fantasia si muova in libertà.
Intanto lo scorrere della storia ha continuato a farci conoscere tragedie e resurrezioni; per noi due la tragedia più brutale perché più imprevedibile – vogliamo qui ricordarlo – fu la rivelazione del vero volto del socialismo reale, un volto di sangue. Scoprimmo che in certi momenti della storia l’utopia può assumere i contorni di una beffa. Ci sono voluti tempo e dolore per ricostruire, dentro di noi e fuori di noi, un rapporto forte con il mondo che ricongiungesse il nostro passato con il nostro presente.
Abbiamo finito, ma prima vorremmo dire un’ultima cosa. Tornando a Pisa, qui nell’Università, abbiamo raccolto vecchi e nuovi pensieri: questo ritorno per noi, come sempre, è anche una partenza per nuove avventure, se la fortuna ci aiuterà. Molte avventure abbiamo vissuto perché molti sono i nostri anni – più di 150 in due – e molti, ora qui lo sentiamo con commozione, sono anche i volti, le persone che ci hanno accompagnato nel nostro cammino e che ora non sono più. Volti di famiglia, compagni di vita, amici, collaboratori umili o determinanti…. Ombre care, perché anche per loro, per le loro attese, la loro fiducia noi due ogni volta abbiamo lavorato e la loro complicità ci aiutava e ci confortava. Ora siamo più soli, com’è giusto alla nostra età, e proviamo malinconia. Ma quelle ombre – lo vogliamo credere – ci stanno qui intorno ed è come se sentissimo il loro bisbigliare. Alcune parole giungono sino a noi. Dicono: imparate a guardare le cose anche con gli occhi di chi non c’è più. Vi sembreranno più sacre e più belle.
Paolo e Vittorio Taviani
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La biografia di Vittorio Taviani
Vittorio Taviani era nato a San Miniato, in provincia di Pisa, il 20 settembre del 1929. Con il fratello Paolo, di due anni più giovane, ha scritto alcune delle pagine più significative del cinema italiano. Due maestri che fin dagli anni Sessanta non hanno mai perso di vista, e hanno raccontato, la realtà, la storia, le contraddizioni del nostro Paese.
Figlio di un avvocato dichiaratamente antifascista (cui le squadracce, durante la dittatura, fecero saltare in aria la casa) Vittorio frequenta la facoltà di Legge all'università di Pisa e nel frattempo, insieme al fratello anima il cineclub della città e organizza proiezioni anche a Livorno. Nel 1954 abbandona gli studi e, sempre insieme al fratello, realizza una serie di documentari a sfondo sociale. Alla base ci sono le suggestioni del Neorealismo e in particolar modo, racconteranno in seguito, "Paisà" di Rossellini. È di questo periodo "San Miniato, luglio '44", girato con la collaborazione di Zavattini, mentre nel 1960 firmano "L'Italia non è un paese povero", tre puntate per la tv dirette da Joris Ivens, documentario dal destino travagliato sulle conseguenze della metanizzazione nel nostro paese.
Il debutto sul grande schermo risale al 1962. I Taviani e Orsini firmano il lungometraggio "Un uomo da bruciare", con Gian Maria Volonté, ispirato alla vita di Salvatore Carnevale, bracciante socialista di Sciara, in provincia di Palermo, attivo nel sindacato e nel movimento contadino, freddato da killer in Sicilia nel 1955. Seguirà il film a episodi "I fuorilegge del matrimonio" (1963), suggerito dal progetto parlamentare di "piccolo divorzio". Da quel momento (senza Orsini) i Taviani firmeranno insieme una lunga filmografia che parte da "Sovversivi" (1967) e "Sotto il segno dello scorpione" (1969), sempre con protagonista Gian Maria Volontè.
Per i due fratelli viene il momento dei riconoscimenti internazionali. "San Michele aveva un gallo" (1972) vince il Premio Interfilm a Berlino. E dopo "Allosanfàn", del 1974, con Marcello Mastroianni e Lea Massari, in cui si fotografa il "tradimento" della classe operaia, è con la biografia di Gavino Ledda "Padre padrone", nel '77, che conquistano Palma d'Oro e Premio della Critica al Festival di Cannes: a consegnarla è il presidente della giuria Roberto Rossellini mentre in Italia viene loro assegnato un David Speciale e un Nastro d'Argento. La carriera di Vittorio Taviani, inscindibile da quella di Paolo, continua con "Il prato" (1979) e "La notte di San Lorenzo" (1982), la storia drammatica di un gruppo di uomini e donne che fuggono dai tedeschi nel tentativo di raggiungere una zona occupata dagli alleati; un film bellissimo sulla speranza, contro tutte le guerre, scandito dalla musica di Nicola Piovani, che farà conquistare ai due autori Gran Premio della Giuria a Cannes, David e Nastri d'Argento per la regia e la sceneggiatura.
Nell'84 adattano quattro novelle di Pirandello in "Kaos", ed è ancora David di Donatello e Nastro d'Argento per la sceneggiatura, scritta questa volta con Tonino Guerra. Nell'86 arriva il Leone d'oro alla carriera mentre il loro percorso artistico prosegue con "Good Morning, Babilonia" (1988), "Il sole anche di notte" (1990, presentato fuori concorso a Cannes), "Fiorile" (1993), "Le affinità elettive" (1996), ispirato all'omonimo romanzo di Goethe. Due anni più tardi, realizzano "Tu ridi" (1998) film a episodi. Nel 2007 è la volta di "La masseria delle allodole", dal romanzo di Antonia Arslan, ambientato nel 1915, le vicende di una famiglia armena in Anatolia all'epoca del genocidio armeno.
A 83 anni, un nuovo, importante riconoscimento: nel 2012 insieme al fratello vince l'Orso d'Oro al Festival di Berlino con "Cesare deve morire": girato in stile docu-drama, segue la messa in scena del "Giulio Cesare" di Shakespeare a opera dei detenuti del carcere di Rebibbia, diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli.
Nel 2014, è uscito "Meraviglioso Boccaccio": ambientato nel 1348, mentre la peste infuria a Firenze, segue dieci giovani che si riuniscono in una casa di campagna e per dieci giorni si raccontano storie d'amore, sesso, burle, per esorcizzare la malattia e la morte. Paolo e Vittorio Taviani hanno adattato cinque novelle del "Decamerone" alle esigenze del XXI secolo, cercando un confronto con le paure dei giovani contemporanei. Un impegno coraggioso che solo due grandi maestri avrebbero potuto affrontare.
Il loro ultimo film è stato "Una questione privata", che ritrova l'ambiente delle Langhe che Fenoglio descrive nelle sue pagine e quell'esperienza drammatica ma fondante che lo scrittore ha vissuto da ragazzo, ma che anche i fratelli indirettamente hanno conosciuto attraverso il loro primo documentario "San Miniato '44", sulla strage nazista nella loro città natale, e poi con "La notte di San Lorenzo".
Jerome Bruner. Cent’anni di psicologia (ETS, 2018) è l’ultimo libro di Elena Calamari, docente di Psicologia generale e di Storia e metodi della psicologia al Dipartimento di Civiltà e forme del sapere dell'Università di Pisa. Fra gli altri libri della professoressa Calamari segnaliamo Soggettività in relazione. Una prospettiva psicologica (ETS, 2013) e La memoria tra cultura e biologia (Pisa University Press, 2015).
Pubblichamo di seguito una scheda del volume e un estratto.
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Nei cento anni della sua vita Jerome Bruner (1915-2016) ha partecipato alle alterne vicende delle scienze umane, da protagonista della rivoluzione cognitiva in psicologia e della sua applicazione all’istruzione. Questo libro è dedicato all’intera opera dell’autore. Ricostruisce i nessi tra i temi della sua ricerca empirica – percezione, apprendimento e pensiero, sviluppo cognitivo e del linguaggio – e li collega con il contributo teorico alla rifondazione della psicologia culturale mediante una rivalutazione del ruolo fondamentale della narrazione.
A seguito della riflessione autobiografica sulla propria avventura intellettuale, Bruner ha saputo cogliere l’importanza del dialogo intersoggettivo nella formazione del sé. L’adozione di un’epistemologia costruttivista e l’atteggiamento pragmatico circa le conseguenze della realizzazione delle idee nei fatti fanno del suo pensiero un contributo sempre attuale, aperto al cambiamento storico e utile ad affrontare i problemi dell’interculturalità.
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"A questo punto della trattazione non si può certo giudicare indebita l’incursione nella filosofia del linguaggio da parte di Bruner, il quale cerca di nobilitare la ricerca sull’ontogenesi linguistica nella relazione, confrontandosi con le teorie generali del significato e mostrando come i processi psicologici non possano essere esclusi dalla comprensione del linguaggio in azione.
La soluzione che egli mette insieme negli anni Novanta è più ambiziosa di quanto possa far credere a prima vista il tono talvolta dimesso dell’argomentazione, che si affida alle evidenze empiriche osservative. Non si limita all’appello generico a una condivisione che sarebbe in qualche modo garantita dall’appartenenza al gruppo o alla specie, in base a meccanismi che in realtà mancano di scattare nelle innumerevoli situazioni in cui gli esseri umani non si comprendono affatto a vicenda e nelle patologie dove non si costituisce o viene meno ogni consonanza intersoggettiva, e appare una soluzione assai debole attribuire tale fallimento al solo deficit biologico".
“Il mio gatto non risponde a nessun nome, anche se li capisce tutti”, afferma Wladimir Kaminer, uno dei protagonisti dell’odierna scena letteraria e culturale tedesca. Il 9 aprile il dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università Pisa l’ha ospitato in occasione di un ciclo di incontri con autori del mondo ebraico, organizzato da Serena Grazzini, docente di letteratura tedesca, all’interno di un progetto nazionale promosso da RE.T.E. (Rete Toscana Ebraica).
Kaminer tra gli studenti che l’hanno intervistato, da sinistra S. Cianciotto, F. Di Pilla, F. Bassani e G. Tizian.
Non solo autore ebraico, ma sovietico immigrato a Berlino, DJ, blogger, giornalista e chi più ne ha più ne metta: a differenza del gatto, lui risponde a tutte le etichette, che sono solo pretesti per instaurare il dialogo con i suoi lettori. Infatti Kaminer, presentato a Pisa dalla professoressa Giovanna Cermelli, viaggia in tutta la Germania, e non solo, per partecipare a eventi, interviste, e serate musicali sulle note del genere "Russendisko".
Il pubblico rimane affascinato dallo stile semplice, spigliato e ironico con cui riesce ad affrontare anche temi spinosi quali politica e immigrazione: “spostandosi”, afferma, “le persone sollevano così tanta polvere da non riuscire più a vedersi”. Perciò i racconti di Kaminer raccolgono esperienze autobiografiche e aneddoti divertenti ambientati nel microcosmo multikulti berlinese, che rimarrebbero altrimenti nascosti. La letteratura però non ha un compito, è “il prodotto finale dell’attività umana, quello che rimane quando tutto il resto scompare”.
Fabio Bassani, Serena Cianciotto, Felicia Di Pilla, Greta Tizian
Studenti del corso di lettorato di tedesco per la laurea magistrale, coordinati da Birgit Schneider
Wladimir Kaminer, foto di Danny Frede.
“The Arts of Making in Ancient Egypt. Voices, images, and objects of material producers 2000–1550 BC” (Sidestone, 2018) è l’ultimo libro a cura di Gianluca Miniaci, ricercatore senior di Egittologia al Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere del nostro Ateneo.
Il dottor Miniaci si occupa di antico Egitto con un particolare interesse per gli aspetti di storia sociale e cultura materiale, integrando prospettive antropologiche e metodi della teoria archeologica. Fra i suoi ultimi studi, Rishi Coffins and the Funerary Culture of Second Intermediate Period Egypt (GHP London, 2011); Le Lettere ai Morti nell’antico Egitto (Paideia, 2014) e, come co-editore, The World of Middle Kingdom Egypt I-II (GHP London, 2015-16), Company of Images: Modelling the Imaginary World of Middle Kingdom Egypt (Peeters, 2017).
Pubblichiamo di seguito una scheda del volume e un estratto (in inglese) dalla premessa.
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Negli ultimi decenni, nell'immaginario collettivo la figura degli antichi egiziani che erano alla base della produzione materiale ha fluttuato tra varie dimensioni, spesso conflittuali tra di loro, da "schiavi" ad "artigiani", da "lavoratori" ad "artisti", senza mai trovare un’univoca forma rappresentativa.
Questo volume, dunque, si propone di analizzare i meccanismi della produzione materiale in Egitto durante l'Età del Medio Bronzo (ca. 2000-1550 a. C.) alla ricerca di una sua più complessa comprensione, al fine di allontanarsi da una serie di preconcetti moderni per avvicinarsi ad un più autentico profilo che gli antichi artigiani egiziani avevano di loro stessi, attraverso l’analisi delle loro parole, delle loro immagini e dei loro artefatti. I contributi del volume hanno lo scopo di fornire un'analisi innovativa sul network di relazioni tra materiali ed esseri umani, sulla circolazione delle idee e sui profili sociali delle persone coinvolte nella produzione materiale dell’antico Egitto.
Craft activities appear as rather more complex activities than previously thought. The limits between “high” and “low” production, between qualified specialists and part-time workers, between “artists” and mere “producers”, seem more blurred, while the centrality ascribed to the production promoted at institutions such as temples, palaces and the households of high officials appears questionable. Pervasive preconceptions among researchers thus collide repeatedly and systemically with evidence for ancient patterns of and ideas around material production.
All fifteen contributors to this volume confront, in different ways, that continuing disjuncture. A shared focus on practice allows new thinking on the location and societal value of different activities, and on their shifting social context of class, age, gender and ethnicity, all inseparable from ancient categories and structures of thought in action.
Un tumore osseo di mille anni fa, il più antico nel suo genere mai rinvenuto, è stato scoperto dall’équipe della divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa coordinata dalla professoressa Valentina Giuffra. Si tratta di un osteoblastoma che ricercatori hanno diagnosticato nel seno frontale del cranio in uno scheletro datato al X-XII secolo e portato alla luce durante gli scavi archeologici condotti nel 2004 presso il grande cimitero medievale della pieve di Pava (Siena).
Sezione istologica dell’osteoblastoma (Blu di Toluidina, 100x)
La scoperta, appena pubblicata sulla rivista scientifica internazionale “The Lancet Oncology”, getta nuova luce sull’antichità dei tumori ossei e pone le basi per nuove ricerche nel campo della paleoncologia.
L’individuo, un giovane maschio di 25-35 anni, presentava in corrispondenza dell’osso frontale una rottura post mortale che ha permesso di osservare la presenza di una piccola neoformazione ovalare all’interno del seno frontale destro del cranio. Grazie all’ausilio di moderne tecniche radiologiche ed istologiche, gli studiosi sono riusciti a chiarire che la natura patologica della lesione era proprio un osteoblastoma.
Particolate della lesione ovalare nel seno frontale destro
“L’osteoblastoma è un raro tumore benigno dell'osso che rappresenta attualmente circa il 3,5% di tutti i tumori primitivi benigni dell'osso e l'1% di tutte le neoplasie ossee - afferma il professore Gino Fornaciari dell’Università di Pisa e coautore della pubblicazione – di solito colpisce prevalentemente i giovani adulti, prediligendo la colonna vertebrale e le ossa lunghe, la localizzazione nel cranio e nei seni paranasali è invece estremamente inconsueta e pochissimi sono i casi noti nella letteratura clinica moderna”.
“E’ stato estremamente sorprendente essere riusciti a trovare testimonianza di questa condizione addirittura nei resti scheletri umani. Ad oggi infatti, il caso medievale di Pava risulta essere la prima attestazione paleopatologica di osteoblastoma del seno frontale, confermando l'esistenza di questo raro tumore osseo benigno a quasi 1000 anni fa” conclude la dottoressa Giulia Riccomi, dottoranda dell’Ateneo pisano e primo autore della pubblicazione.
Grazie alla generosità del Rotary Club Cascina, alla sovvenzione District Grant e al contributo della società A.T.E.F.I. srl, il percorso espositivo del Museo nazionale della Certosa di Calci si arricchisce di una parte importante dell'appartamento priorale: la sala/quadreria, la cappellina privata dalle elegantissime decorazioni parietali, l’affaccio sul giardino del Priore con lo splendido grottesco che arreda e decora il muro di cinta che separa il giardino dagli orti.
In questa sala, grazie all’intesa della direzione del Museo nazionale con la direzione del Museo di Storia naturale dell’Università di Pisa, è stato esposto l’affresco realizzato nell'ottobre del 1770 sulla parete esterna che si affaccia nel Chiostro delle Foresterie, o chiostro priorale, e strappato per motivi legati alla sua conservazione sul finire degli anni '70 del Novecento. L’affresco, raffigurante San Bruno, fondatore dell'Ordine certosino, era stato commissionato dai Padri certosini al pittore fiorentino Pietro Giarrè per ricordare il cospicuo contributo di 500 scudi che la Certosa, insieme agli altri monasteri dell’ordine, aveva offerto per la realizzazione della statua del santo che ancor oggi si trova in San Pietro a Roma, scolpita in marmo dallo scultore fiammingo, naturalizzato francese, Renè Michel Slodz nel 1744 e a questa opera il pittore si era ispirato.
La sala scelta per l’esposizione dell’affresco, un arioso ambiente nella cui volta è dipinta la Gloria di San Bruno, copia del dipinto eseguito da Pietro Giarrè nel corridoio grande che conduce al chiostro dei Padri, ospitava in antico e fino all’abbandono del convento da parte dell’Ordine, la Quadreria del Priore nella quale spiccavano le incisioni con Storie della vita di Cristo e alcuni quadri di valore quali ad esempio i ritratti dei Priori che sono state qui ricollocati.
Rivediamo oggi tali opere nel loro contesto d’origine, ricreando così l’atmosfera di elegante riservatezza che aveva nei secoli caratterizzato gli ambienti di vita del Priore. (Fonte MIUR - Polo Museale della Toscana).
Il Premio di studio di filosofia intitolato a Vittorio Sainati è un’iniziativa intellettuale e scientifica che nasce dalla collaborazione di diverse realtà istituzionali e culturali appartenenti al territorio pisano e che, nel corso della sua storia, è giunto ad acquisire un’eco e un’importanza di livello nazionale.
Vittorio Sainati, scomparso nel novembre 2003, è stato un illustre docente di Filosofia Morale e di Filosofia Teoretica dell’Università di Pisa. Alla sua memoria è dedicato il progetto che nasce nel 2006 su impulso delle Edizioni ETS, della famiglia Sainati e di un gruppo di amici e allievi dello stesso Sainati, tra cui i professori Adriano Fabris e Gianfranco Fioravanti che si sono dedicati al Premio sin dalle sue origini. La casa editrice pisana è stata lieta di farsi promotrice di questa iniziativa in nome del rapporto professionale e personale instauratosi negli anni con Vittorio Sainati, che è stato suo fondamentale e prezioso collaboratore. Con le Edizioni ETS infatti Sainati ha pubblicato importanti volumi, quali Filosofia e linguaggio, Idealismo e neohegelismo, Dall’idealismo all’ermeneutica, Logica e filosofia.
L’attività è stata concepita dagli organizzatori in modo che venisse portato avanti il forte impegno mostrato da Sainati nel sostenere i giovani studiosi. Per un intero decennio, così, il Premio ha accolto tesi di dottorato elaborate da ricercatori di giovane età per sottoporle alla valutazione di una Commissione di livello nazionale, in vista della pubblicazione della migliore proposta all’interno di una delle collane filosofiche del catalogo ETS.
Nel corso di questi dieci anni il Premio ha ottenuto il Patrocinio del Presidente della Repubblica, del Presidente del Senato, del Presidente della Camera dei Deputati, del Sindaco di Pisa, del Presidente della Provincia di Pisa, del Direttore della Scuola Normale Superiore, del Rettore dell’Università di Pisa e del Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia del medesimo Ateneo.
Il Premio inoltre ha dato la possibilità ai vincitori delle diverse edizioni, oltre di veder pubblicato il proprio lavoro di ricerca, di ricevere una targa donata dal Presidente della Repubblica e di presentare il proprio lavoro durante la cerimonia di premiazione.
A titolo di tesi vincitrici sono stati pubblicati volumi come Heidegger interprete di Kant, La memoria come capacitas Dei secondo Agostino, Universali linguistici e categorie grammaticali, per citare soltanto i testi premiati nelle prime edizioni.
A partire dall’anno 2016 il Premio ha assunto un nuovo volto, tentando di farsi portavoce anche di un’altra modalità di espressione della ricerca scientifica, sposata anch’essa in prima persona da Sainati. Il Premio ha trovato infatti un nuovo spazio all’interno della prestigiosa rivista di filosofia “Teoria”, edita dalle Edizioni ETS e fondata dallo stesso Vittorio Sainati nel 1981, e attualmente curata da Adriano Fabris.
Da due anni l’iniziativa accoglie proposte di articoli elaborati da giovani ricercatori, dando a questi ultimi la possibilità di vederne pubblicazione all’interno di una specifica sezione della Rivista, appositamente dedicata al Premio. Proprio in virtù del proposito di promuovere l’attività di ricerca scientifica, italiana come pure internazionale, e restituire così un adeguato riconoscimento al lavoro degli studiosi che la portano avanti, il Premio ha previsto la possibilità di pubblicare, oltre al miglior saggio proposto e in quanto tale vincitore del Premio, anche altri contributi ritenuti qualitativamente validi.
L’ultima edizione del Premio ha visto vincitore il dottor Luca Gili con un saggio dal titolo L’Aristotele di Vittorio Sainati e l’Aristotele dei contemporanei. È stato un immenso piacere, per la casa editrice e per la Commissione giudicatrice, poter conferire il premio a un lavoro che fosse la testimonianza vivente dell’operato di colui per il quale esso è stato istituito: la qualità della ricerca scientifica in sé e l’eredità filosofica lasciata da Sainati ai ricercatori delle nuove generazioni.
Attualmente è in corso la XII edizione del Premio, giunta già alla seconda fase prevista dal relativo bando. Nei prossimi mesi, la Giuria valuterà le proposte dei concorrenti al fine di selezionare, in vista della pubblicazione, il lavoro migliore e, eventualmente, gli altri articoli meritevoli. Entro la fine della primavera verrà quindi proclamato il nome del vincitore. A seguito dell’esito dell’edizione in corso, inoltre, verrà organizzata una cerimonia di premiazione ospitata dall’Università di Pisa, nella quale sarà presentata la nuova versione assunta dal Premio e saranno menzionati i lavori vincitori delle ultime due edizioni.
"Supports in Roman Marble Sculpture. Workshop Practice and Modes of Viewing" (Cambridge University Press 2018) è il titolo dell'ultimo libro di Anna Anguissola, ricercatrice in Archeologia Classica presso il dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell'Ateneo.
Fra gli altri suoi lavori "Difficillima Imitatio. Immagine e lessico delle copie tra Grecia e Roma" (L'Erma di Bretschneider 2012) e "Intimità a Pompei. Riservatezza, condivisione e prestigio negli ambienti ad alcova di Pompei" (De Gruyter 2010).
Pubblichiamo di seguito una introduzione al volume, buona lettura!
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‘Inartistic’, ‘obtrusive’, ‘disfiguring’, ‘unseemly’, ‘unsightly’, ‘visually disturbing’ e ‘distracting’ sono solo alcuni dei commenti che gli studiosi di lingua inglese hanno riservato ai supporti della scultura romana in marmo – giudizi che trovano pieno riscontro nell’ostilità tedesca verso elementi ‘unorganisch’, ‘störend’, ‘überflüssig’, ‘hässlich’ e ‘leblos’ e nell’avversione italiana per gli ‘orribili puntelli’. In effetti, in nessun altro periodo nella storia della scultura occidentale è altrettanto frequente la presenza di supporti e puntelli, di dimensioni talora esorbitanti rispetto alla figura che (apparentemente) sostengono e in forme non di rado sorprendentemente elaborate.
Proprio ai puntelli e ai problemi iconografici ed esegetici che sollevano è dedicato questo volume, le cui pagine ripercorrono la lunga storia della scultura in marmo dall’età greca arcaica alla tarda antichità. Da sempre ai margini degli studi sull’arte antica, il tema è stato finora trattato essenzialmente in una duplice prospettiva. Da un lato, nei puntelli si sono visti strumenti utili a tradurre, in pesante pietra, composizioni ideate in bronzo. I supporti, cioè, sarebbero caratteristici delle copie romane in marmo da antichi e celebri originali greci in bronzo. D’altro canto, si è suggerito che i puntelli fungessero, essenzialmente, come precauzioni per il trasporto. La presenza di sostegni, dunque, rivelerebbe la provenienza di una certa statua da un luogo assai lontano rispetto al contesto di esposizione.
Entrambe queste letture sono qui per la prima volta esplorate in maniera sistematica, nel quadro di un’approfondita analisi delle tecnologie della produzione statuaria nel Mediterraneo romano, oltre che dei modi e contesti di esibizione e lettura dell’arte.
In quale misura l’analisi di elementi estranei alla dimensione narrativa dell’opera può guidarci alla scoperta di fenomeni relativi al gusto e alle convenzioni visive di quanti producevano, acquistavano e osservavano la scultura nel mondo antico?
E' appena uscito nelle librerie Un meraviglioso accidente. La nascita della vita (Mondadori, pagg. 144, euro 19,00). Gli autori sono Marco Santagata, uno dei maggiori italianisti e studiosi italiani di Dante e Petrarca e già docente all'Università di Pisa, e Vincenzo Manca, professore di informatica all'Università di Verona.
Il volume sarà presentato a giovedì 15 marzo 2018, alle ore 18.00 al Museo della Grafica. Nell'occasione sarà anche inaugurata la mostra delle illustrazioni originali di Guido Scarabottolo presenti nel libro.
Di seguito una introduzione al volume, buona lettura!
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Un meraviglioso accidente. La nascita della vita di Vincenzo Manca e Marco Santagata è un esperimento di comunicazione scientifica, un libro di divulgazione scritto da un addetto ai lavori e da un profano, letterato e scrittore di successo, che ha subito il fascino di un racconto tra amici in una sera, o meglio in più sere di mezza estate, di qualche anno fa. L’esperimento consiste nello scrivere le cose che il primo autore dice, ma attraverso una rielaborazione del secondo approvata dal primo. Una sorta di divulgazione “alla fonte” in cui la “tassa di incomprensione”, ineliminabile nel travaso, viene in qualche modo concordata all’origine.
A guardare l’indice del libro, sembra che tutto il cammino della vita possa essere scandito da princìpi astratti: Aggregazione, Replicazione, Generazione, Memorizzazione, Riproduzione, Diversificazione, Evoluzione (Due prologhi all’inizio, due lettere degli autori alla fine, e una brevissima nota storica in fondo).
Si mette in luce la logica stringente dei passi di un processo che sembra seguire il copione di un regista, ma allo stesso tempo mostra, a tutti i livelli, una diffusa casualità che sembra puramente “accidentale”.
I primi attori della storia sono molecole, dette monomeri, che si aggregano formando delle file. La logica di queste file è quella di realizzare in modo efficiente copie di se stesse. La vita nasce con le replicazioni di biopolimeri, catene di monomeri. La formazione dell’elica del Dna e la formazione delle membrane non sono altro che danze di molecole che seguono uno spartito basato su aggregazione, dualità, complementarietà, asimmetrie e ritrovate simmetrie. Una volta che si formano delle membrane che al loro interno ospitano biopolimeri, siamo sul cammino verso le cellule, ma per arrivare alle vere cellule vi è una lunga storia di generazioni.
La riproduzione in senso pieno prevede una memoria biologica adeguata. Questa memoria è realizzata dal Dna. Alla struttura del Dna sono dedicate diverse pagine per spiegare l’intrinseca necessità geometrica dell’elica. La logica di questa forma deriva dal modulo triangolare che sovrintende alle file appaiate di biopolimeri, una logica richiesta dal dovere comprimere questa molecola gigantesca in uno spazio molto piccolo (il nucleo della cellula). Con la comparsa del Dna si sviluppa una ricca struttura di rapporti molecolari in cui si distinguono molecole informazionali (Dna) da molecole funzionali (Proteine) e da molecole ambivalenti (Rna). La vita è informazione rappresentata ed elaborata da molecole. Questa è una delle tesi centrali del libro.
Gli ultimi due capitoli raccontano il passaggio dalla vita unicellulare a quella multicellulare. All’evoluzione, che compare sin dai primi passi del racconto, è dedicato l’ultimo capitolo. Questa è la parte più astratta del libro in cui si cerca di superare il continuo dilemma tra caso e calcolo.
"Giacomo Verde, videoartivista" a cura di Silvana Vassallo (Edizioni Ets, 2018) è il libro che inuagura la collana "I mirtilli" diretta da Sandra Lischi, ordinario di Cinema, Fotografia e Televisione al dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere. Dopo questo primo volume sono in preparazione altre uscite su Bill Viola, Ursula Ferrara, Nam June Paik e Jean-Cristophe Averty, quest'ultimo libro curato dalla stessa professoressa Lischi.
Di seguito una breve presentazione della collana.
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Il mirtillo è un frutto piccolo e resistente, che fa bene al cervello, al cuore e alla vista. Questa collana si propone di esplorare, in modo agile e comunicativo, un panorama sempre più importante ma non adeguatamente illuminato: quello di autori e autrici la cui opera è segnata dall’indipendenza produttiva, dagli sconfinamenti, dall’apertura di nuovi percorsi, dalle indiscipline, dalla sperimentazione di linguaggi audiovisivi.
Un territorio lontano dalla fiction e dall’intrattenimento, che si estende dalla videoarte al documentario di creazione, dal cinema espanso e dall’animazione a nuove forme audiovisive estese, corali, interattive, espositive. Ogni volume tratta di un autore o un’autrice, non solo in Italia, offrendo uno strumento di conoscenza esaustivo ma sintetico e di agevole consultazione, corredato di ogni utile apparato, anche visivo.
Sandra Lischi