Non ominino, ma ancora scimmia: il Sahelanthropus tchadensis non camminava su due piedi
Con uno studio che ha riguardato un fossile di femore scoperto a luglio del 2001 in Chad, un team di ricercatori ha gettato dubbi sul Sahelanthropus tchadensis, una specie descritta come il primo ominino in base a evidenze morfologiche del cranio che sembravano indicare una locomozione bipede. Lo studio di questo femore a cui ha partecipato l’antropologo Damiano Marchi, professore al Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, e coordinato dal professor Roberto Macchiarelli dell’Università di Poitiers in Francia, è stato pubblicato sul Journal of Human Evolution, la rivista di riferimento per la paleoantropologia.
“I risultati dell’analisi di morfologia funzionale effettuati sul femore di Sahelanthropus tchadensis e il confronto con altri fossili più o meno coevi suggeriscono che il femore TM 266 appartenga a un individuo che non era in grado di camminare abitualmente in maniera bipede – spiega il professor Marchi - Questo risultato dovrebbe essere tenuto in considerazione quando si cerca di capire la posizione di Sahelanthropus tchadensis rispetto agli altri fossili ominini”.
Ma partiamo dall’inizio. Sahelanthropus tchadensis è un fossile trovato nel 2001 in Chad, a Toros-Menalla, da un team franco-ciaddiano. La scoperta ha fatto molto scalpore perché il fossile è stato datato a sette milioni di anni fa, quindi vicino al periodo che si ipotizza abbia visto la separazione tra l’antenato delle scimmie antropomorfe attuali e l’antenato degli uomini moderni. Lo studio del cranio sembrava indicare una locomozione bipede ed è per questo che la nuova specie fu descritta come il primo ominino. Queste conclusioni sullo stato bipede del fossile hanno però creato molti dubbi nella comunità paleoantropologica a causa della deformazione del cranio e della mancanza di evidenze dal resto dello scheletro.
A luglio del 2001 è stato poi rinvenuto il fossile di un femore parziale (numero di catalogo TM 266-01-063) in associazione spaziale con il cranio di Sahelanthropus tchadensis, che non era mai stato descritto in precedenza. Il femore fu per la prima volta riconosciuto come un probabile femore di primate da uno degli autori del lavoro (Aude Bergeret-Medina) che nel 2004 stava effettuando un sondaggio tafonomico sull’insieme di fossili trovati a Toros-Menalla.
Alla luce del recente studio, il femore non sembra però indicare una locomozione bipede: “I nostri risultati pur gettando qualche dubbio sullo stato bipede di Sahelanthropus tchadensis e quindi sul suo ruolo come primo ominino, non diminuiscono l’importanza della specie nel panorama evolutivo. Le evidenze degli ultimi quattro milioni di anni mostrano una grande diversità tassonomica nel gruppo degli ominini – aggiunge Marchi – Non c’è ragione di credere che lo stesso tipo di diversità non fosse presente anche nel Miocene, il periodo in cui Sahelanthropus tchadensis visse. In tal caso, sarà molto difficile capire quali tra le specie trovate in questo periodo siano ominini oppure antenati delle moderne scimmie antropomorfe. Al momento non sappiamo quando e dove in Africa la separazione tra ominini e scimmie antropomorfe avvenne ed è quindi più cauto considerare la condizione ominina di Sahelanthropus tchadensis come un’ipotesi di lavoro piuttosto che un dato di fatto”.
Non ominino, ma ancora scimmia: il 'Sahelanthropus tchadensis' non camminava su due piedi
Con uno studio che ha riguardato un fossile di femore scoperto a luglio del 2001 in Chad, un team di ricercatori ha gettato dubbi sul Sahelanthropus tchadensis, una specie descritta come il primo ominino in base a evidenze morfologiche del cranio che sembravano indicare una locomozione bipede. Lo studio di questo femore a cui ha partecipato l’antropologo Damiano Marchi, professore al Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, e coordinato dal professor Roberto Macchiarelli dell’Università di Poitiers in Francia, è stato pubblicato sul Journal of Human Evolution, la rivista di riferimento per la paleoantropologia.
Cranio e ricostruzione di Sahelanthropus tchadensis (immagini da Wikipedia).
“I risultati dell’analisi di morfologia funzionale effettuati sul femore di Sahelanthropus tchadensis e il confronto con altri fossili più o meno coevi suggeriscono che il femore TM 266 appartenga a un individuo che non era in grado di camminare abitualmente in maniera bipede – spiega il professor Marchi - Questo risultato dovrebbe essere tenuto in considerazione quando si cerca di capire la posizione di Sahelanthropus tchadensis rispetto agli altri fossili ominini”.
Ma partiamo dall’inizio. Sahelanthropus tchadensis è un fossile trovato nel 2001 in Chad, a Toros-Menalla, da un team franco-ciaddiano. La scoperta ha fatto molto scalpore perché il fossile è stato datato a sette milioni di anni fa, quindi vicino al periodo che si ipotizza abbia visto la separazione tra l’antenato delle scimmie antropomorfe attuali e l’antenato degli uomini moderni. Lo studio del cranio sembrava indicare una locomozione bipede ed è per questo che la nuova specie fu descritta come il primo ominino. Queste conclusioni sullo stato bipede del fossile hanno però creato molti dubbi nella comunità paleoantropologica a causa della deformazione del cranio e della mancanza di evidenze dal resto dello scheletro.
A luglio del 2001 è stato poi rinvenuto il fossile di un femore parziale (numero di catalogo TM 266-01-063) in associazione spaziale con il cranio di Sahelanthropus tchadensis, che non era mai stato descritto in precedenza. Il femore fu per la prima volta riconosciuto come un probabile femore di primate da uno degli autori del lavoro (Aude Bergeret-Medina) che nel 2004 stava effettuando un sondaggio tafonomico sull’insieme di fossili trovati a Toros-Menalla.
Alla luce del recente studio, il femore non sembra però indicare una locomozione bipede: “I nostri risultati pur gettando qualche dubbio sullo stato bipede di Sahelanthropus tchadensis e quindi sul suo ruolo come primo ominino, non diminuiscono l’importanza della specie nel panorama evolutivo. Le evidenze degli ultimi quattro milioni di anni mostrano una grande diversità tassonomica nel gruppo degli ominini – aggiunge Marchi (nella foto a destra) – Non c’è ragione di credere che lo stesso tipo di diversità non fosse presente anche nel Miocene, il periodo in cui Sahelanthropus tchadensis visse. In tal caso, sarà molto difficile capire quali tra le specie trovate in questo periodo siano ominini oppure antenati delle moderne scimmie antropomorfe. Al momento non sappiamo quando e dove in Africa la separazione tra ominini e scimmie antropomorfe avvenne ed è quindi più cauto considerare la condizione ominina diSahelanthropus tchadensis come un’ipotesi di lavoro piuttosto che un dato di fatto”.
Archivio dei corsi precedenti (TFA, PAS, Sostegno, PF24)
Scoperto un nuovo “termometro” per studiare temperature e clima passato del pianeta
C’è un nuovo termometro per misurare e studiare le temperature e il clima passato del nostro pianeta. Si tratta del magnesio contenuto in particolari concrezioni, dette speleotemi, che si formano lentamente all’interno di piccoli laghi o pozze dentro le grotte. La scoperta arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e realizzato da un team internazionale guidato dai professori Giovanni Zanchetta del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e Russell Drysdale dell’Università di Melbourne. Alla ricerca hanno inoltre collaborato per parte italiana l’Istituto di Geoscienze e Georisorse CNR e l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Pisa.
“Analizzando le variazioni della concentrazione del magnesio negli speleotemi abbiamo la possibilità di registrare i cambiamenti di temperatura per centinaia di migliaia di anni”, spiega Giovanni Zanchetta.
In particolare la ricerca ha riguardato una “carota” proveniente da uno speleotema di un piccolo lago del sistema carsico dell'Antro del Corchia in Toscana, a circa 300 m di profondità nelle viscere della montagna, e cresciuto ininterrottamente durante gli ultimi 350 mila anni.
“I risultati relativi alla concentrazione di magnesio coprono quindi gli ultimi quattro cicli glaciale-interglaciale, e sono confermati dalla corrispondenza con i record di temperatura della superficie del mare registrati nei sedimenti oceanici del Mediterraneo e dell’Atlantico”, continua Zanchetta.
Per verificare questa somiglianza, i ricercatori si sono focalizzati su un periodo chiamato Termination II – cioè la conclusione della penultima era glaciale, tra 136 e 128 mila anni fa. Durante questo periodo di riscaldamento, le temperature oceaniche sono aumentate di 8 gradi nel giro di poche migliaia di anni. Lo studio ad altissima risoluzione della speleotema del Corchia, unito alla determinazioni radiometrica dell’età con il metodo del decadimento radioattivo dell’Uranio in Torio, ha così mostrato un brusco aumento nella concentrazione del Mg, verificatosi esattamente in concomitanza del forte aumento delle temperature oceaniche.
“Questa ricerca è la prima a dimostrare che il magnesio in uno speleotema può fungere da indicatore di temperatura – conclude Zanchetta – la temperatura è uno dei parametri fondamentali nelle misurazioni climatiche e la stima delle temperature passate è quindi un tassello irrinunciabile per la ricostruzione del clima passato, e può aiutarci a capire come ogni regione risponda ai principali episodi di cambiamento climatico globale”.
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Link all’articolo scientifico:
https://www.nature.com/articles/s41467-020-18083-7
Scoperto un nuovo “termometro” per studiare temperature e clima passato del pianeta
C’è un nuovo termometro per misurare e studiare le temperature e il clima passato del nostro pianeta. Si tratta del magnesio contenuto in particolari concrezioni, dette speleotemi, che si formano lentamente all’interno di piccoli laghi o pozze dentro le grotte. La scoperta arriva da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e realizzato da un team internazionale guidato dai professori Giovanni Zanchetta del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e Russell Drysdale dell’Università di Melbourne. Alla ricerca hanno inoltre collaborato per parte italiana l’Istituto di Geoscienze e Georisorse CNR e l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Pisa.
“Analizzando le variazioni della concentrazione del magnesio negli speleotemi abbiamo la possibilità di registrare i cambiamenti di temperatura per centinaia di migliaia di anni”, spiega Giovanni Zanchetta.
In particolare la ricerca ha riguardato una “carota” proveniente da uno speleotema di un piccolo lago del sistema carsico dell'Antro del Corchia in Toscana, a circa 300 m di profondità nelle viscere della montagna, e cresciuto ininterrottamente durante gli ultimi 350 mila anni.
Operazioni di carotaggio laghetto basso del Corchia, terzo a sinistra Giovanni Zanchetta (Foto L. DeCesari)
“I risultati relativi alla concentrazione di magnesio coprono quindi gli ultimi quattro cicli glaciale-interglaciale, e sono confermati dalla corrispondenza con i record di temperatura della superficie del mare registrati nei sedimenti oceanici del Mediterraneo e dell’Atlantico”, continua Zanchetta.
Per verificare questa somiglianza, i ricercatori si sono focalizzati su un periodo chiamato Termination II – cioè la conclusione della penultima era glaciale, tra 136 e 128 mila anni fa. Durante questo periodo di riscaldamento, le temperature oceaniche sono aumentate di 8 gradi nel giro di poche migliaia di anni. Lo studio ad altissima risoluzione della speleotema del Corchia, unito alla determinazioni radiometrica dell’età con il metodo del decadimento radioattivo dell’Uranio in Torio, ha così mostrato un brusco aumento nella concentrazione del Mg, verificatosi esattamente in concomitanza del forte aumento delle temperature oceaniche.
“Questa ricerca è la prima a dimostrare che il magnesio in uno speleotema può fungere da indicatore di temperatura – conclude Zanchetta – la temperatura è uno dei parametri fondamentali nelle misurazioni climatiche e la stima delle temperature passate è quindi un tassello irrinunciabile per la ricostruzione del clima passato, e può aiutarci a capire come ogni regione risponda ai principali episodi di cambiamento climatico globale”.
Incarico sul tema: "Studio di diverse ipotesi di lay-out e di configurazioni tipologiche e volumetriche per nuovi edifici di aule, laboratori e altri edifici universitari. Definizione delle caratteristiche prestazionali e architettoniche"
Incarico di lavoro autonomo sul tema: "Traduzione dal russo di: articoli da riviste, saggi, capitoli di libri inerenti alla costruzione di Mosca capitale e della sua architettura. Redazione di materiale legato alla collaborazione tra università"
Riconoscimento per la professoressa Romano e l’Ateneo dal Journal of Cleaner Production
Il prestigioso Journal of Cleaner Production ha citato la professoressa Giulia Romano (foto a destra) del dipartimento di economia e management e l'Università di Pisa fra i "most productive authors" e "most influential institutions" nel periodo 2000-2019. In particolare la menzione sottolinea come punto di forza le relazioni internazionali instaurate con i più influenti studiosi del campo di ricerca investigato (water utility benchmarking).
“Ricordo che nel periodo 2014-2017 è stato attivo il Modulo Jean Monnet da me coordinato sul tema "European Water Utility Management" – dice Giulia Romano – e che sono tuttora attive collaborazioni con alcuni studiosi considerati come i più influenti al mondo ed in particolare il professore Rui Cunha Marques e la professoressa Maria Molinos Senante”.
Luigi Russo, comunista liberale nell’Italia del Novecento
Intellettuale, critico letterario, candidato come indipendente nelle fila del PCI in Sicilia, sua terra di origine, da dove era partito per frequentare la Scuola Normale Superiore e di cui era diventato direttore dal 1943 al ’48. Ma anche professore alle Università di Firenze e Pisa negli anni Venti e Trenta, fondatore della rivista Belfagor nel 1948 e certo fra i protagonisti della vita culturale italiana del Novecento.
Alla figura di Luigi Russo è dedicato l’ultimo libro del professore Alessandro Volpi del dipartimento di Scienze Politiche dell’Ateneo pisano edito dalla Pisa University Press: “Una singolare militanza. Luigi Russo "comunista liberale" attraverso le sue corrispondenze”.
”Luigi Russo - spiega Alessandro Volpi - visse con estrema intensità le grandi discussioni che hanno attraversato la comunità degli intellettuali del nostro Paese, partecipando a ruvidi scontri nelle commissioni per i premi letterari e a vere e proprie battaglie campali combattute attorno a recensioni e concorsi a cattedra”.
E accanto alla “militanza” culturale anche quella politica, da “comunista liberale”, un tratto che il libro analizza a partire da corrispondenze in gran parte inedite del letterato siciliano. Ne emerge così il profilo di un comunista indipendente con la capacità di costruire una cultura politica, “popolare” e accademica al contempo, in grado di avvicinare la sinistra italiana ad una dimensione “nazionale” del comunismo.
“Da questo punto di vista – conclude Volpi - Luigi Russo appare come l’interprete in parte consapevole in parte involontario delle strategie del partito di Togliatti, impegnato nella ricerca di una vocazione maggioritaria dove far confluire un esteso patrimonio di idee, dal liberalismo, al socialismo progressista, fino ad un pezzo del cattolicesimo”.
Luigi Russo, comunista liberale nell’Italia del Novecento
Intellettuale, critico letterario, candidato come indipendente nelle fila del PCI in Sicilia, sua terra di origine, da dove era partito per frequentare la Scuola Normale Superiore e di cui era diventato direttore dal 1943 al ’48. Ma anche professore alle Università di Firenze e Pisa negli anni Venti e Trenta, fondatore della rivista Belfagor nel 1948 e certo fra i protagonisti della vita culturale italiana del Novecento. Alla figura di Luigi Russo è dedicato l’ultimo libro del professore Alessandro Volpi del dipartimento di Scienze Politiche dell’Ateneo pisano edito dalla Pisa University Press: “Una singolare militanza. Luigi Russo "comunista liberale" attraverso le sue corrispondenze”.
”Luigi Russo - spiega Alessandro Volpi - visse con estrema intensità le grandi discussioni che hanno attraversato la comunità degli intellettuali del nostro Paese, partecipando a ruvidi scontri nelle commissioni per i premi letterari e a vere e proprie battaglie campali combattute attorno a recensioni e concorsi a cattedra”.
E accanto alla “militanza” culturale anche quella politica, da “comunista liberale”, un tratto che il libro analizza a partire da corrispondenze in gran parte inedite del letterato siciliano. Ne emerge così il profilo di un comunista indipendente con la capacità di costruire una cultura politica, “popolare” e accademica al contempo, in grado di avvicinare la sinistra italiana ad una dimensione “nazionale” del comunismo.
“Da questo punto di vista – conclude Volpi - Luigi Russo appare come l’interprete in parte consapevole in parte involontario delle strategie del partito di Togliatti, impegnato nella ricerca di una vocazione maggioritaria dove far confluire un esteso patrimonio di idee, dal liberalismo, al socialismo progressista, fino ad un pezzo del cattolicesimo”.