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Mercoledì, 17 Luglio 2013 14:01

Il mondo della cultura piange la scomparsa di Vincenzo Cerami

ceramiIl mondo della cultura piange la scomparsa di Vincenzo Cerami, scrittore, sceneggiatore, drammaturgo e paroliere, a cui nel 2006 l' Università di Pisa conferì una laurea specialistica honoris causa in Letterature e filologie europee, in una cerimonia a cui partecipò anche l'amico fraterno Roberto Benigni. Quel giorno a tenere la laudatio c'era il professor Francesco Orlando, che lo celebrò con il discorso "L'umanità racconta i suoi segreti"

Vincenzo Cerami parlò invece del rapporto tra ‪‎letteratura‬ e ‪‎storia‬ nella lectio magistralis "Il racconto della Storia", che riportiamo anche qui di seguito.


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Il racconto della Storia

Il più giocoso e astratto degli scrittori europei, Raymond Queneau, non ama l'umorismo, il surrealismo, la retorica dell'ispirazione, la letteratura del sublime, del frammento lirico. La sua concezione "tradizionalista" della letteratura, per la quale l'opera va costruita con sapienza e coscienza del marchingegno, non è in contraddizione con lo sguardo "patafisico" della sua scrittura, efficace quant'altri nell'evocazione del vero. Egli non rinuncia a una concezione materialistica e antropologica della letteratura, vista come luogo della Storia, storia che egli definisce "scienza dell'infelicità degli uomini".

cerami e benigniIn un saggetto del '45 Queneau ricorda che sono stati scritti romanzi che non hanno tenuto conto del contesto storico in cui si svolge la vicenda. In molte opere inglesi, da Tom Jones a David Copperfield, non si fa cenno ad alcun evento politico o a situazioni sociali. Ma precisa, tra parentesi, che non si tratta di opere fuori della Storia: come dire che ogni racconto situato nella realtà è fatalmente dentro la Storia, anche quando non compaiono date, guerre e rivoluzioni. Queneau non approfondisce una questione apparentemente marginale ma essenziale: il racconto non situato nella realtà ha una stretta connessione con la Storia?

Di specifico interesse è l'epilogo del breve saggio, là dove egli afferma che la presenza della Storia, in una narrazione, ha significato soltanto se consente allo scrittore "di scoprire i primi germi di quella che domani diventerà la banale realtà, di rendere pubblici valori che restano ancora inosservati". Queneau si domanda, implicitamente, se il romanzo debba o no far concorrenza alla narrazione storiografica. E qui si annida la sua vera provocazione, entrando di traverso nel dibattito esploso in Europa ai tempi delle Annales di Marc Bloch. Stendhal, Balzac, Flaubert hanno proposto personaggi e uomini che sarebbero apparsi sulla scena francese di lì a poco. "Balzac è grande non perché ha descritto bene la società del suo tempo, ma perché l'ha descritta come generatrice di quella che sarebbe succeduta".

Qual è il senso di "rendere pubblici valori che restano ancora inosservati"? La risposta ce la offre indirettamente Ortega y Gasset nel definire intellettuale chiunque si chieda cosa succederà fra un'ora. Balzac è dunque uno scrittore intellettuale. Ma c'è da chiedersi se non sia intellettuale anche Mallarmé quando tenta una letteratura autonoma e tesa all'assoluto, verso la pura letterarietà.

La fuga dalla Storia ha caratterizzato diversi momenti della letteratura europea, ed è sempre stata lo specchio di un conflitto insostenibile tra libertà individuale e condizionamento culturale. Ci sono momenti in cui è forte nell'uomo la tentazione di svincolarsi dalle influenze esterne, dal laccio di un comportamento parassitario, coatto. Il desiderio di essere totalmente padroni delle proprie azioni è il sogno della piena libertà, negata sia da Marx che da Freud, emblemi della sottomissione alla storia e alla psiche. L'ultimo esempio risale agli anni Sessanta, quando l'Europa, in una estrema vocazione positivista, ha introdotto nello studio della realtà lo strumento del metalinguaggio. Althusser ha tentato di destorificare il marxismo; Lacan la psicoanalisi, attraverso l'autoreferenzialità dell'inconscio e Lévi–Strauss l'indagine antropologica, usando metodologie linguistiche astoriche. Molta semiotica di quegli anni, analizzando le strutture, emarginava i contenuti semantici e i valori estetici dei testi, cioè l'extratesto.

La domanda che si pone è questa: la Storia è necessaria alla metonimia del racconto realistico, cioè alla trama, o non è piuttosto immanente alla scrittura stessa? La lingua, che è figlia della Storia, quindi corpo "in movimento" e in continua trasformazione lessicale, sintattica e stilistica, un immenso contenitore di oggetti, paesaggi, anime, può essere destorificata, svuotata dei contenuti accidentali di un'epoca e usata solo strumentalmente, come fosse super partes?

La lingua di Gadda, il romanesco del Belli o il milanese del Porta o il siciliano di Vincenzo Consolo o lo stile mimetico di Verga non sono mai esistiti in natura: sono un'invenzione che allontana il racconto dalla realtà o, al contrario, il risultato di uno sforzo per offrire della realtà l'immagine più essenziale e veritiera, nascosta appunto dalla lingua naturalistica, in circolazione, fuorviante e inquinata dalla cultura del momento? L'inglese di Raymond Carver non riproduce ma mima la voce dei suoi personaggi: solo così ne coglie l'essenzialità e l'anelito segreto; solo così evoca il sogno della provincia americana degli anni Settanta e Ottanta, frustrato e rimosso. Ogni opera letteraria non ha solo un "come", ma anche un "quando".

cerami e pasqualiSe nel romanzo l'aggancio con la realtà si verifica attraverso la lingua, fatalmente mutuata da quella extratestuale del quotidiano, vuol dire che qualsiasi testo letterario, compreso il racconto fantastico, contribuisce al ritratto di un'epoca. Anch'esso ha un "quando". La lingua si appropria del presente storico sempre e comunque. La filologia, che si prefigge la corretta interpretazione dei testi letterari, opera contemporaneamente sul testo e sull'extratesto, sul linguaggio letterario e sulla storia della lingua, al di là dei generi e dei livelli stilistici.

Nella conclusione del memorabile saggio Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale, Erich Auerbach afferma che "Stendhal e Balzac, facendo oggetto di rappresentazione seria, problematica, o addirittura tragica, persone comuni della vita quotidiana, condizionate dal tempo in cui vivevano" hanno inaugurato il realismo moderno. Questa impostazione prevede che i suddetti autori conoscano obiettivamente il tempo storico che fa da sfondo alla vicenda, mentre è lecito il sospetto che con i loro racconti scoprano e rivelino via via , attraverso la storia dei personaggi, il tempo in cui essi vivono, cioè la Storia. Il paradigma di partenza, lo schema ideologico dell'opera, fa da pre-testo. La scrittura, indagando i comportamenti e raccontandoli anche nelle fughe dal freddo schema prestabilito, finisce per rappresentare una società che si muove, che cambia faccia, che vincola le persone.

Ma è lo stesso Auerbach a dirci che l'argomento dei suoi studi è "l'interpretazione della realtà per mezzo della rappresentazione letteraria". Quindi il rapporto tra letteratura e realtà è circolare: una prima realtà fa da scena al racconto, e il racconto ne palesa alla fine una seconda, non più trasognata questa volta, ma prossima al vero.

La frase di Auerbach "interpretazione della realtà per mezzo della rappresentazione letteraria" può perfettamente essere adottata dagli storici. Cos'è lo studio della Storia se non una interpretazione della realtà? Già agli inizi degli anni Ottanta il nostro storico Carlo Ginzburg, come ricorda nel suo Il filo e le tracce, vero falso finto, cancella la distinzione tra narrazioni storiche e narrazioni di finzione. Vede le une e le altre in competizione nella "rappresentazione della realtà". Se una ricostruzione storica è indiziaria, il romanzo è senz'altro una miniera di tracce utili al racconto del vero, è un libro di Storia a tutti gli effetti.

Il racconto di finzione può giocare, insieme con altro materiale documentario, un ruolo importante nella narrazione storica. Sappiamo ormai quanto poco senso abbia nei libri di Storia l'elencazione cronologica dei fatti accaduti, legati tra loro più o meno meccanicamente. Il filo rosso della Storia prende un'andatura casuale, fatalistica. Il Manzoni, nel suo saggio in forma di lettera Del romanzo storico, parla del racconto letterario usando la terminologia di uno storico: "La storia che aspettiamo da voi non è un racconto cronologico dei soli fatti politici e militari e, per eccezione, di qualche avvenimento straordinario d'altro genere; ma una rappresentazione più generale dello stato dell'umanità in un tempo, in un luogo...". Manzoni fa l'esempio di una carta geografica: lo storiografo descrive le catene di monti, le pianure, le città; lo scrittore descrive invece i villaggi, le viuzze, le case isolate... e anche i costumi, le opinioni, l'essere e il fare degli uomini.

Se lo storico non vuole dare l'impressione della casualità dei fatti, è necessario che costruisca una drammaturgia narrativa, che faccia in qualche modo letteratura. Serve un punto fermo di riferimento per la decodificazione degli accadimenti. In poche parole, per capire ciò che è successo ieri egli deve sapere com'è fatto l'oggi, perché le cose accadute hanno prodotto il presente, si sono sviluppate e intrecciate in modo da dare il risultato che oggi è davanti agli occhi di tutti. Senza questo zodiaco di orientamento ogni tentativo di dare senso alla cronologia paga il prezzo della interpretazione soggettiva.

Ma come "fotografare" il presente, come offrirne l'immagine obiettiva? È impossibile, non bastano dati, date, statistiche e sondaggi per restituire complessità e contraddizioni di un momento storico. Chi scrive è immerso e perso nel presente, tuttavia elabora un testo che presume di inquadrare la contemporaneità, di distanziarlo da sé. Di situarlo in un "quando". Il romanzo, nella sua vocazione originaria, ha proprio questo come obiettivo, ma sa di inseguire una lepre di pezza, di rincorrere vanamente un mito. Tuttavia può succedere, come nel caso di Stendhal e di Balzac, che la letteratura metta a disposizione "testi impregnati di Storia" (per citare Ginzburg). Si pensi anche a Pasolini: nessuno meglio di lui, di un poeta, ha descritto, in presa diretta, la massificazione e la rivoluzione antropologica del nostro paese.

Per concludere: se ogni romanzo è un libro di Storia, il narratore ha gli stessi doveri deontologici dello storico. L'etica dello scrittore è la stessa dello storico. La coscienza linguistica, che differenzia lo scrittore da chi semplicemente scrive, coincide con la consapevolezza di raccontare un "quando". La realtà del reale è l'utopia dell'artista. Da sempre.

Vincenzo Cerami

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Mercoledì, 17 Luglio 2013 08:38

Pisa al vertice della ricerca in Italia

Logo AnvurL'Università di Pisa è al 12° posto tra le 32 grandi università prese in considerazione dall'indagine dell'Anvur sulla ricerca nel periodo 2004-2010 e poco più in basso se si considera il rapporto tra dimensione e qualità delle strutture. Tra i grandi atenei, al primo posto c'è Padova, mentre ai lati del podio si piazzano la Bicocca di Milano e Verona. L'Ateneo pisano è il primo in Toscana, seguito da Siena al 16° posto e da Firenze in 23a posizione. A completare il buon risultato pisano, ci sono i primi due posti conquistati dalla Scuola Sant'Anna e dalla Scuola Normale tra le università di piccole dimensioni.

"I dati dell'Anvur - commenta il rettore Massimo Augello - ribadiscono l'eccellenza della nostra Università nelle diverse aree delle Scienze naturali (in particolare, in Matematica, Fisica e Scienze della terra) e in Informatica, oltre che in quella delle Scienze politiche e sociali. L'Ateneo pisano mantiene inoltre un'elevata qualità nel settore medico e in quello umanistico. In definitiva - pur avendo bisogno di tempo per analizzare i dati in modo disaggregato e avere quindi un quadro completo e dettagliato della situazione - siamo soddisfatti del risultato acquisito, tanto più considerando che le valutazioni Anvur riguardano il periodo 2004-2010 e che negli ultimi anni registriamo performance in decisa e continua crescita. Unito all'ottimo risultato ottenuto dalla Scuola Sant'Anna e dalla Scuola Normale, il nostro dato conferma Pisa al vertice della ricerca in Italia". Come sempre, conclude il rettore, "questo risultato deve servirci come stimolo per migliorare ulteriormente, affinché Pisa possa continuare a essere punto di riferimento per la comunità scientifica nazionale e internazionale, e per rispondere al meglio alle logiche dei futuri processi valutativi".

L'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur), costituita nel 2006, ha svolto il suo lavoro in venti mesi, monitorando quasi 185 mila prodotti della ricerca (articoli, monografie, atti di convegno, brevetti e così via) presentati dai professori e dai ricercatori delle diverse strutture. Alla fine, ha così valutato 95 università, 12 enti di ricerca e 26 consorzi. Il sistema di valutazione si è articolato sulle 14 aree disciplinari identificate dal Comitato universitario nazionale e ha preso in considerazione sette indicatori: la qualità della ricerca, l'attrazione delle risorse, la mobilità dei ricercatori, l'internazionalizzazione degli stessi, l'alta formazione del personale, le risorse proprie e l'indicatore di miglioramento.

Nel corso della presentazione dei dati Anvur, il ministro Maria Chiara Carrozza ha annunciato che 540 milioni di euro - la quota premiale dell'8% del Fondo di finanziamento ordinario erogato annualmente agli atenei - saranno distribuiti in base ai risultati del rapporto.

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