Si è concluso lo scorso 30 aprile il mandato del professore Francesco Forti dell'Università di Pisa a capo dell'LHC Committee del CERN, il comitato di controllo e indirizzo del programma scientifico del più grande acceleratore al mondo. In particolare, nei quattro anni del suo incarico, il professor Forti ha lavorato in vista di una nuova fase operativa ad alta luminosità dell’esperimento che inizierà intorno al 2025. L’aggiornamento dei programmi per gli esperimenti ATLAS e CMS ha infatti comportato un investimento di quasi 450 milioni di euro da parte della comunità internazionale ed ha richiesto una attenta indagine e verifica.
Francesco Forti tra la Direttrice del CERN, Fabiola Gianotti, ed il Direttore della divisione ricerca e computing, Eckhard Elsen (crediti CERN)
“La sfida più difficile è stato garantire un esame imparziale e profondo di questi progetti di grande complessità e dimensione in tempi molto ristretti - spiega Forti - Per questo, oltre al comitato LHCC, formato da una quindicina di scienziati, sono stati consultati centinaia di esperti in tutto il mondo, con uno sforzo organizzativo senza precedenti”.
Fabiola Gianotti, direttrice del CERN, ha quindi voluto salutare così la fine del mandato del professore dell’Ateneo pisano: “Caro Francesco, vorrei esprimerti la mia gratitudine e ammirazione, anche a nome del CERN, per il tuo ruolo cruciale come Chair del Comitato LHCC e in particolare per il tuo contributo fondamentale all’upgrade degli esperimenti LHC. Il programma sperimentale di LHC ha beneficiato enormemente della tua competenza, visione e pragmatismo”.
A new study just published in the international journal Biology Letters, published by the prestigious Royal Society of London, describes the enormous skeleton of a fossil blue whale, discovered in 2006 on the edge of Lake San Giuliano near Matera (southern Italy). This research involved the palaeontologists Giovanni Bianucci, Alberto Collareta, Walter Landini, Caterina Morigi and Angelo Varolaof the Department of Earth Sciences of the University of Pisa, Agata Di Stefano of the Department of Biological Geological and Environmental Sciences of the University of Catania, and Felix Marxof the Directorate Earth and History of Life of the Royal Belgian Institute of Natural Sciences in Brussels.
Excavation of the fossil skeleton of Balaenoptera cf. musculus on the edge of San Giuliano Lake, Matera, Italy (photo G. Bianucci).
Giovanni Bianucci, who took part in the excavation and coordinated the study of the fossil, explains: "The shape of its bones clearly identifies the Matera fossil as a close relative of the living blue whale (Balaenoptera musculus), the largest animal that ever lived. This idea also fits with the estimated length of the new specimen, which at 26 meters is the largest whale fossil ever described, and perhaps the largest whale that ever swam in the Mediterranean Sea. This finding is important not just because it is a world record, but above all because of its implications for the evolution of extreme size".
Comparison between the ear bones of the extant blue whale and the fossil from Matera, highlighting similar features (photo and composition by F. Marx and G. Bianucci).
Gigantism is a phenomenon that has emerged, independently and at different times, in many vertebrate lineages. Large body size is thought to confer some form of competitive advantage, but exactly how and why it evolved remains a matter of debate. In recent years, research into vertebrate gigantism has focused especially on baleen whales (Mysticeti), which include the largest animals on Earth. By far the biggest is the blue whale, which can exceed 30 meters in length and reach up to 180 tonnes in weight.
Skull of Balaenoptera cf. musculus from Matera (left), next to an explanatory drawing showing the position of the preserved bones in the complete skull (photo of the skull by Akhet s.r.l.; drawing and composition by G. Bianucci and F. Marx).
Unlike most other mammals, mysticetes lack teeth, and instead use comb-like keratinous plates hanging from their upper jaw to trap tiny prey like krill. Their extremely large size has been interpreted as a way to avoid predation, e.g. by the - now extinct - gigantic sperm whale Livyatan melvillei, or the equally impressive megatooth shark Carcharocles megalodon; or as the result of a recent change in the availability and distribution of prey, which would have forced whales to move between distant feeding and/or breeding grounds.
Artistic reconstruction of the Matera whale (drawing by Alberto Gennari).
"Most fossil whales are much smaller than their living relatives" explains Alberto Collareta, "which has led to the idea that baleen whale gigantism is a relatively recent phenomenon. For example, one recent study modelled the evolution of mysticete body size over time, and found that extremely large whales only arose during the past 2-3 million years. Unfortunately, the mysticete fossil record of this period is rather poor, which means that scientists so far had to rely mainly on data from the living species".
Fossils from the past 2-3 million years are rare, because sea levels during this period were often lower than today. Most of the fossils that formed were drowned when the water rose again, and now lie inaccessible beneath the ocean floor. There are, however, some exceptions, such as the new blue whale from Matera. Agata di Stefano and Caterina Morigi analysed microfossils found with the specimen, which showed that the animal lived sometime between 1.49 and 1.25 million years ago. Its size demonstrates that extremely large whales already existed back then, and likely arose earlier than previously thought.
"Together, the Matera whale and some other, even older finds from Peru show that large whales evolved earlier, and probably more gradually, than previously thought. These ocean giants play a crucial role as ecosystem engineers, and probably have done so for quite some time." says Felix Marx.
Giovanni Bianucci concludes: "The profound impact of baleen whales on the modern ocean highlights the need to understand their deep-time ecology. Doing so will help us gain a better understanding of the evolutionary dynamics of the marine environment, and the delicate balance of the biological communities within it".
Mysticete body length plotted against time. Red circles indicate the position of the Matera whale and three new fossil mysticetes from Peru (diagram modified by Graham J. Slater et al.; drawing of Balaenoptera cf. musculusby Carl Buell).
Lo scheletro fossile di un’enorme balena scoperto nel 2006 nel Comune di Matera, sulle rive del lago artificiale di San Giuliano, torna ora al centro dell’attenzione grazie a uno studio appena pubblicato sulla rivista internazionale Biology Letters, edita dalla prestigiosa Royal Society di Londra. La ricerca ha coinvolto i paleontologi Giovanni Bianucci, Alberto Collareta, Walter Landini, Caterina Morigi e Angelo Varola del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, Agata Di Stefano del Dipartimento di Scienze Biologiche Geologiche e Ambientali dell’Università di Catania e Felix Marx del Directorate Earth and History of Life, Royal Belgium Institute of Natural Sciences di Bruxelles.
Scavo dello scheletro fossile di Balaenoptera cf. musculus sulle rive del lago di San Giuliano, Matera (foto G. Bianucci).
“I caratteri morfologici del cranio e della bulla timpanica, che è una parte dell'orecchio interno che serve ad amplificare i suoni – afferma Giovanni Bianucci che ha preso parte allo scavo e ha coordinato lo studio del reperto - rivelano le forti affinità tra la balena di Matera e l’attuale balenottera azzurra (Balaenoptera musculus), confermate anche dalla stima della lunghezza massima dell’animale che superava i 26 metri. Si tratta del più grande fossile di balena mai descritto e, forse, della più grande balena che abbia mai solcato le acque del Mar Mediterraneo. Questo dato è importante non solo perché ci permette di inserire questo fossile nei Guinness dei primati, ma anche, e soprattutto, perché l’aumento estremo delle dimensioni è uno degli aspetti più interessanti dell’evoluzione”.
Confronto tra la bulla timpanica della balenottera azzurra attuale e della balena fossile di Matera con in evidenza i caratteri simili (foto e composizione di F. Marx e G. Bianucci).
Il gigantismo è, infatti, un fenomeno che è comparso e si è affermato, in maniera indipendente e in tempi diversi, in molte linee evolutive di vertebrati. Al di là di un generico vantaggio che le grandi dimensioni potrebbero aver dato ad una specie nella competizione con quelle di taglia più piccola, molti aspetti del fenomeno restano oscuri. In particolare, negli ultimi anni l’attenzione dei ricercatori si è focalizzata sul gigantismo estremo evoluto dai misticeti, quei cetacei che nel corso della loro evoluzione hanno sostituito i denti con i fanoni per filtrare dalla massa d’acqua i piccoli organismi di cui si nutrono.
Cranio in veduta dorsale della Balaenoptera cf. musculus di Matera con in evidenza le parti conservate (foto del cranio di Akhet s.r.l.; disegno e composizione di G. Bianucci e F. Marx).
Questi mammiferi marini, comunemente noti come balene, hanno il proprio rappresentante più spettacolare proprio nella balenottera azzurra, che può superare i 30 metri di lunghezza e le 180 tonnellate di peso, attestandosi dunque come il più grande animale, in termini di massa, mai comparso sulla Terra. Tra le possibili cause del gigantismo dei misticeti ipotizzate da studi recenti va ricordata la pressione selettiva esercitata dai grandi predatori marini del passato, come Livyatan melvillei (un parente del capodoglio trovato fossile in Perù) e lo squalo gigante Carcharocles megalodon, che avrebbe avvantaggiato le balene più grandi e quindi meno vulnerabili agli attacchi. Anche il progressivo raffreddamento del pianeta potrebbe aver favorito l’enorme aumento della taglia delle balene. In particolare, la messa in posto delle calotte glaciali contribuì alla ridistribuzione di cibo nei mari concentrandolo soprattutto in quelli polari. Molte balene si spostarono a loro volta in queste aree fredde per nutrirsi, dovendo tuttavia compiere lunghi viaggi stagionali per tornare a riprodursi nelle acque calde tropicali. In questo caso la pressione selettiva avrebbe favorito le balene più grandi perché in grado di immagazzinare una quantità maggiore di risorse energetiche per affrontare le lunghe migrazioni.
Ricostruzione artistica di Balaenoptera cf. musculus di Matera (disegno di Alberto Gennari).
“Poiché tutte le balene fossili sono molto più piccole delle enormi balenottere attuali – spiega Alberto Collareta - fino ad oggi i modelli macroevolutivi hanno sostenuto che il gigantismo dei misticeti fosse un fenomeno molto recente, originatosi durante il periodo Quaternario, coincidente con gli ultimi due milioni e mezzo di anni. Questa idea ha trovato supporto in studi recenti che, attraverso modelli macroevolutivi, sostengono che l’estremo gigantismo dei misticeti sia un fenomeno limitato agli ultimi 2-3 milioni di anni. Un punto debole di queste ricerche consiste però nel fatto che i resti fossili di misticeti risalenti agli ultimi milioni di anni sono molto scarsi e pertanto l’ipotesi della recente accelerazione nell’aumento della taglia si basa prevalentemente sulle dimensioni gigantesche delle balene attuali”.
Evoluzione della taglia dei misticeti nel tempo geologico. In evidenza la balena di Matera e tre misticeti fossili del Perù utilizzati per ridefinire il trend evolutivo (grafico modificato da Graham J. Slater e colleghi; disegno di B. musculus di Carl Buell).
Lo studio della balena di Matera porta un contributo fondamentale per chiarire gli aspetti ancora oscuri di questi importanti processi evolutivi. Le analisi dei microfossili associati alla balena, condotte da Agata di Stefano e Caterina Morigi, hanno infatti fornito una datazione compresa tra 1,49 e 1,25 milioni di anni fa, all'interno di un intervallo temporale (il Pleistocene inferiore) relativamente vicino al presente, in cui il record fossile dei cetacei è quasi inesistente o quanto meno non accessibile poiché le rocce che ne potrebbero contenere i resti fossili si trovano in gran parte ancora nei fondali marini.
“Inserendo i dati ottenuti dallo studio preliminare della balena di Matera e di altri reperti recentemente rinvenuti in Perù nei modelli macroevolutivi più largamente accettati – afferma Felix Marx - si è scoperto che l’estremo gigantismo dei misticeti è un fenomeno più antico di quanto si pensasse e che l’aumento delle dimensioni è stato probabilmente più graduale di quanto prima teorizzato”.
“Considerato il profondo impatto che i misticeti hanno avuto sull’evoluzione degli ecosistemi marini a scala globale, nonché la loro fondamentale influenza nel foggiare la struttura ecologica degli oceani moderni – conclude Giovanni Bianucci - conoscere in dettaglio questi processi evolutivi è di fondamentale importanza per decifrare le dinamiche evolutive dell'ambiente marino e i delicati equilibri delle comunità biologiche dell'oceano globale e quindi anche per capire quali potrebbero essere gli effetti dovuti alla scomparsa di questi giganti del mare. Non dobbiamo, infatti, dimenticare che la balenottera azzurra, dopo essere riuscita a sopravvivere con successo per oltre un milione di anni, è stata portata sull’orlo dell’estinzione da soli cento anni di caccia spietata da parte dei balenieri e ancora non sappiamo come la sua definitiva scomparsa potrebbe cambiare il delicato equilibrio naturale di cui fa parte”.
Il classico problema dell’ “ago nel pagliaio” è molto più spinoso di quanto sembri, quando gli aghi sono oggetti come sottomarini, aerei o navi, e il pagliaio un vasto spazio marittimo o aereo. La questione di come fare a localizzare questi oggetti relativamente piccoli rispetto allo spazio in cui sono posizionati ha ricadute fondamentali nell’ambito della difesa militare, dei trasporti e del commercio. Una ricerca a firma del team di sistemi radar del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, formato dai professori di Telecomunicazioni Fulvio Gini e Sabrina Greco, e il ricercatore Stefano Fortunati, propone una soluzione innovativa.
L’articolo ha vinto il premio “2019 EURASIP JASP Best Paper Award” come miglior articolo dell’anno pubblicato sulla rivista Journal on Advances in Signal Processing (JASP).
“Quello che abbiamo fatto – commenta Fulvio Gini – è stato usare un approccio statistico innovativo per stimare la posizione di oggetti di interesse, quali aerei o navi nel caso di dati radar o di sottomarini e persino relitti nel caso di dati sonar. La teoria usata, chiamata “compressed sensing” permette infatti di sfruttare il fatto che i possibili oggetti di interesse sono “sparsi” (cioè “pochi” rispetto all’estensione dell’area da monitorare) per ridurre drasticamente in numero di dati necessari all’identificazione e alla localizzazione degli oggetti stessi”.
I risultati teorici derivati dal gruppo di ricerca sono poi stati validati tramite una campagna di misure fatta in collaborazione con il centro CMRE (Centre for Maritime Research and Experimentation), della NATO con sede a La Spezia, utilizzando sensori subacquei mobili. “La validazione sperimentale – aggiunge Sabrina Greco – ha permesso di mettere chiaramente in luce tutti i vantaggi di questo nuovo approccio. Il basso numero di dati richiesto dall’algoritmo di rivelazione porta infatti ad una veloce localizzazione degli oggetti di interesse molto più rapida rispetto alle tecniche classiche.
Il premio verrà assegnato nel corso della prossima conferenza internazionale sul Signal Processing (EUSIPCO) che si svolgerà a La Coruna dal 2 al 6 settembre 2019.
Italian researchers and professors have spent over 2.5 million dollars to publish articles in predatory journals, that is journals which boast scientific standards they do not respect. The data emerges from a study carried out by Mauro Sylos Labini (photo) from the Department of Political Sciences of the University of Pisa, by Manuel Bagues from the University of Warwick in England and by Natalia Zinovyeva from the University of Aalto in Finland. These three researchers examined the CVs of 46,000 researchers and professors who participated in the first edition of the National Scientific Qualification 2012-13, the first stage in the procedure necessary to become a professor in Italian universities. The results of their analyses have just been published in the monographic edition of “Research Policy” journal, which is devoted to the theme of bad scientific practices.
“A conservative estimate based on our study suggests that in order to publish around 6,000 articles, the researchers surveyed spent more than two and a half million dollars, an average of 440 dollars per article,” says Mauro Sylos Labini. “A part of this figure comes directly from the pockets of the researchers, but a part comes from their public research funds, and it is, however, an estimate which does not take into consideration the cost of attending ‘predatory’ conferences often associated with these publications.”
The study reveals that, overall, more than 2,000 researchers, around 5% of the participants in the National Scientific Qualification, have published in ‘predatory’ journals. The scientific sectors most affected are Economics and Business. However, on the financial side, the misuse of resources appears to be higher in Medicine where some researchers have paid up to 2,500 dollars to publish one article.
“The financial cost is actually the classic tip of the iceberg,” concludes Sylos Labini. “The fact that many researchers and professors publish articles in these journals and include them in their CVs shows that there are major problems in the evaluation of research. Our results, in fact, suggest that when this assessment is carried out by inexperienced researchers these articles may even receive a positive evaluation.”
E' uscito in prima edizione italiana con la Pisa University Press il saggio di Christian Bracco "Quando Albert diventò Einstein. Gli anni italiani 1895-1901". A tradurlo Paolo Rossi, professore al dipartimento di Fisica del nostro Ateneo.
Pubblichiamo di seguito un estratto dalla prefazione a firma del professore Paolo Rossi
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Gli anni “italiani” di Einstein, che rappresentano al tempo stesso i Lehrjahre, ma anche i primi Wanderjahre del grande scienziato, sono quelli su cui Einstein stesso ha quasi sempre preferito non interrogarsi retrospettivamente, e quindi sono quelli su cui è più che mai indispensabile recensire tutte le fonti ed esplorare tutti i contesti nel tentativo di offrire una plausibile ricostruzione “razionale” del processo formativo con cui un individuo sicuramente geniale (che banalità!) ma anche certamente figlio del suo tempo è giunto a costruire e proporre in un periodo così breve una visione del mondo tanto avanzata che se da un lato, ne siamo certi, prima o poi qualcun altro sarebbe giunto alle stesse conclusioni, dall’altro è lecito supporre che il tempo necessario per arrivarci avrebbe potuto essere molto più lungo.
Christian Bracco ha affrontato il tema ponendosi nell’ottica dello storico “vero”, ossia di chi è consapevole che è indispensabile partire da tutti i documenti disponibili, anche quelli apparentemente più esotici ed ellittici rispetto all’argomento trattato, ma che è altrettanto indispensabile saper avanzare ipotesi e proporre interpretazioni, perché ogni libro di storia non è altro che una rilettura del passato, e ogni rilettura è anche una reinterpretazione.
Ma non si tratta soltanto di questo. Almeno a parere di chi scrive l’aspetto più importante di questa ricerca consiste nella latitudine degli orizzonti. Troppo facile, e troppo scontato, parlare di qualche più o meno infelice o complicata vicenda scolastica o raccontare la storia “interna” (ossia puramente scientifica) di un paio di lavori giovanili. Quel che occorreva veramente, e che Bracco ha realizzato, era la descrizione di un contesto (anzi a dire il vero di più contesti) dentro il quale inserire e meglio comprendere le vicende individuali, collegandole a una dinamica letteralmente “storica”, quella degli ultimi decenni dell’Ottocento e dei primissimi anni del Novecento, che ha visto il contemporaneo verificarsi di alcuni passaggi epocali, dal trionfo dell’elettricità allo sviluppo delle ferrovie, dall’evoluzione dei rapporti di lavoro alla formazione di nuove classi dirigenti, dall’emancipazione di interi gruppi sociali (tra cui non a caso gli appartenenti alla comunità ebraica) alle prime esili tracce di partecipazione delle donne alla vita scientifica e sociale.
Il compito di esplorare sistematicamente le relazioni di parentela e le interazioni tra diverse “famiglie allargate” (non solo gli Einstein, ma anche i Besso, i Cantoni, i Marangoni, gli Ascoli, i Koch, i Winteler e tanti altri più o meno importanti coprotagonisti), svolto con acribia non disgiunta da una certa “fantasia creativa” rappresenta già di per sé uno straordinario “valore aggiunto” di questo ampio saggio, così come è certamente molto interessante approfondire dinamiche e strutture dell’ambiente scientifico lombardo nel secondo Ottocento o ripercorrere la storia delle Esposizioni universali di fine secolo e del loro ruolo specifico nell’affermarsi del ruolo dell’elettricità nell’industria e nella società civile. [...]
Tirando le somme di tutto ciò che questo saggio ci ha fatto apprendere ci rimane, da italiani, un solo rimpianto: il pensiero che a partire dal 1901 Albert Einstein avrebbe potuto essere a tutti gli effetti uno scienziato italiano e che solo la scarsa lungimiranza dei nostri poco illuminati cattedratici lo abbia avviato verso quel lavoro all’Ufficio brevetti di Berna di cui ha certamente tanto beneficiato la Fisica, e speriamo l’intera umanità, ma i cui risultati (ci si conceda un poco di ucronia) avrebbero forse potuto essere pubblicati sul Nuovo Cimento invece che sugli Annalen der Physik.
Per pubblicare articoli su riviste predatorie, cioè che millantano standard scientifici senza rispettarli, professori e ricercatori italiani hanno speso oltre 2,5 milioni di dollari. Il dato emerge da uno studio condotto da Mauro Sylos Labini (foto a destra) del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa, da Manuel Bagues dell’Università di Warwick in Inghilterra e da Natalia Zinovyeva dell’Università di Aalto in Finlandia. I tre ricercatori hanno esaminato i curricula di 46.000 ricercatori e professori che hanno partecipato alla prima edizione dell’Abilitazione Scientifica Nazionale del 2012-13, una procedura che serve per partecipare ai concorsi per diventare professore nelle università italiane. I risultati della loro analisi sono stati appena pubblicati su in un numero monografico della rivista “Research Policy” dedicato al tema delle cattive pratiche scientifiche.
“Una stima conservativa basata sulla nostra indagine, suggerisce che per pubblicare circa 6.000 articoli i ricercatori del campione hanno speso più di due milioni e mezzo di dollari, una media 440 dollari ad articolo – dice Mauro Sylos Labini – parte di questa cifra esce direttamente dalle tasche dei ricercatori, ma parte proviene invece dai loro fondi di ricerca pubblici, e si tratta comunque di una stima che non tiene conto delle spese per la partecipazione a conferenze ‘predatorie’, spesso associate a queste pubblicazioni”.
Come emerge dallo studio, a livello complessivo, sono oltre 2.000 i ricercatori, circa il 5 per cento dei partecipanti all’Abilitazione Scientifica Nazionale, che hanno pubblicato su riviste “predatorie”. I settori scientifici maggiormente interessati sono economia aziendale, organizzazione e finanza aziendale. Ma per l’aspetto economico, lo spreco di risorse sembra essere maggiore in medicina dove alcuni ricercatori hanno pagato fino a 2.500 dollari per pubblicare un singolo articolo.
“I costi monetari sono in realtà solo la classica punta dell’iceberg – conclude Sylos Labini – il fatto che molti ricercatori e professori pubblichino articoli su queste riviste e le inseriscano nei loro curricula dimostra che ci sono enormi problemi nella valutazione della ricerca. I nostri risultati suggeriscono infatti che quando questa viene fatta da ricercatori poco esperti questi articoli possono persino essere valutati positivamente”.
Una “colla” da utilizzare in caso di fratture non scomposte, una “rete” connettiva ad espansione da iniettare per riparare bacino e vertebre e delle “impalcature” in 3D per far rigenerare le ossa nei casi ancora più gravi. Sono questi i tre approcci per combattere l’osteoporosi basati su biomateriali innovativi e tecnologie avanzate che sono allo studio nell’ambito di Giotto, un progetto europeo del programma Horizon 2020 appena finanziato con oltre 5 milioni di euro per i prossimi quattro anni. Insieme a tredici partner scientifici e industriali di dieci diversi Paesi, nell’impresa è coinvolta anche l’Università di Pisa con il gruppo ricerca del professore Giovanni Vozzi e dall’ingegnere Carmelo De Maria del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e del Centro di ricerca “E. Piaggio”.
“Si tratterà di costruire sistemi intelligenti ritagliati sui singoli pazienti capaci di stimolare la rigenerazione ossea e di rallentare il processo osteoporotico attraverso il rilascio di molecole bioattive che naturalmente prodotte dal nostro organismo diminuiscono però con l’età – spiega il professor Giovanni Vozzi – l’idea in più è di dotare gli impianti di particelle magnetiche in grado di monitorare il processo di guarigione”.
L'osteoporosi è una malattia ossea molto comune e più frequente dopo la menopausa e con l'invecchiamento. Si manifesta quando la matrice ossea diventa più porosa, e di conseguenza le ossa diventano deboli e fragili - così fragili che una caduta o anche lievi sollecitazioni come piegarsi o tossire possono causare una frattura. È stato calcolato che una frattura osteoporotica si verifica ogni 3 secondi nel mondo, più comunemente nell'anca, nella colonna vertebrale o nel polso. Dopo una frattura, i pazienti possono perdere la loro indipendenza, soffrire di dolore cronico e diventare depressi, così l'osteoporosi si trasforma in un notevole carico socio-economico, da cui l’importanza di intervenire con politiche e interventi mirati come si propone di fare il progetto appena varato.
“In particolare nell’ambito di Giotto, il nostro compito – conclude Giovanni Vozzi - sarà quello di sviluppare un nuovo sistema di stampa 3D capace di processare i nanomateriali messi a punto nel progetto in modo per creare impianti multiscala e multimateriale da utilizzare nel caso di fratture con grossa perdita ossea. Questi impianti o impalcature saranno principalmente costituiti da collagene e idrossiapatite, presenti naturalmente nelle nostre ossa, più un materiale microplastico che si riassorbirà una volta rigenerato l’osso”.
Foto a destra: il team pisano, da sinistra, Giovanni Vozzi, Francesca Montemurro, Francesco Biagini, Aurora De Acutis, Gabriele fortunato, Anna Lapomarda e Carmelo De Maria
Immagine a sinstra: scaffold stampato in 3D con ingrandimento delle cellule umane che stanno “colonizzando” la struttura
Il Museo degli Strumenti per il calcolo dell'Università di Pisa può oggi vantare una delle più cospicue raccolte del mondo dei sistemi progettati da Steve Jobs dal 1977 al 2007. Il museo ha beneficiato di una importante donazione effettuata dalla società Thesis, con sedi a Firenze e a Milano. Dal 1986 Thesis opera nell’editoria e nello sviluppo software per la distribuzione dei contenuti ed è stata una delle prime società a introdurre il Macintosh nella produzione editoriale. Dal 1990 al 1992 Thesis è stata pure una delle società arruolate da Steve Jobs per portare in Italia il NeXT, la workstation visionaria progettata dopo la sua uscita dalla Apple. Il primo NeXT arrivato in Italia, 30 anni fa, è proprio sbarcato a Pisa e adesso è di proprietà del museo.
La già importante collezione del museo si è adesso arricchita di una quarantina di sistemi Apple donati da Thesis, tra i quali Apple II, Macintosh 128k, Newton, e di quattro workstation NeXT ancora funzionanti che vanno ad aggiungersi al NeXTCUBE già in possesso del museo. Completano la donazione un centinaio di pacchetti software, tra i quali “Mathematica” per NeXT.
Fabio Gadducci, direttore del Museo degli Strumenti per il calcolo dell'Università di Pisa, ha dichiarato: “Il materiale della donazione rappresenta un’acquisizione importante anche a livello internazionale e ci permette di offrire al pubblico una panoramica completa sul lavoro di Steve Jobs, una delle figure più rilevanti dell’informatica mondiale. La nostra collezione riesce adesso a coprirne tutta la carriera. Con l’eccezione di Apple I, il cui valore lo mette fuori della portata di qualunque istituzione museale italiana”.
Tiziana Arrighi, presidente e CEO di Thesis ha dichiarato: “Con questa donazione siamo lieti di aver contribuito, non solo alla preservazione di un materiale di grandissimo valore per le generazioni future, ma anche al consolidamento di Pisa come culla e polo di eccellenza, da 50 anni, dell’informatica italiana”.
“Anni di sacrifici, ma anche di grandi amicizie”. Con queste parole Giorgio Saccoccia, il nuovo presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana nominato lo scorso 9 aprile, ricorda gli anni di studio all’Università di Pisa. Era il marzo del 1988 quando Giorgio Saccoccia si laureò con lode in Ingegneria aerospaziale discutendo una tesi intitolata "Proprietà termodinamiche e di trasporto del tetrossido di azoto in condizioni ipercritiche per il raffreddamento rigenerativo di un motore a razzo" con i professori Claudio Casarosa e Mariano Andrenucci come relatori.
“Al momento di cominciare l’università, abitavo a Taranto (a causa del lavoro di mio padre ho vissuto in molte città) – continua Saccoccia - il mio sogno era lavorare nel settore spaziale e all’epoca esistevano solo cinque atenei che offrivano studi in questo ramo. Conoscevo Pisa per il suo buon nome e l’ho scelta anche per la sua dimensione che ritenevo più vicina alle mie esigenze”.
56 anni, un incarico precedente all’Agenzia Spaziale Europea dove ha svolto gran parte della sua carriera, Giorgio Saccoccia nel tempo ha mantenuto i contatti con la scuola di ingegneria aerospaziale dell’Ateneo pisano.
”Al di là dei rapporti formali nell'ambito delle attività di ricerca e sviluppo che ha sempre intrattenuto con la comunità pisana di propulsione aerospaziale – ha detto il professore Fabrizio Paganucci del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale - Giorgio è rimasto sempre affettivamente legatissimo a noi tutti e alla nostra università, a lui da parte nostra e di tutto l’Ateneo vanno gli auguri per il suo nuovo incarico”.