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Venerdì 12 aprile, nell'Aula Magna Nuova del Palazzo “La Sapienza”, si è tenuta la cerimonia di conferimento dell’Ordine del Cherubino per gli anni 2018 e 2019. La cerimonia è tornata in Sapienza dopo sette anni, a restauro ultimato. L’ultima volta che il palazzo aveva ospitato l’evento era stato nel 2012.

La mattinata è stata aperta dall'intervento del rettore Paolo Mancarella, che nel suo discorso alla comunità accademica si è soffermato sulla necessità, da parte dell'università, di recuperare la sua autorevolezza. "L’università che paragonata a quel che la circonda ha mantenuto una superiore dignità, può essere il punto di ripartenza per riconquistare i valori che si stanno perdendo - ha detto il rettore - Può e deve farlo. Lo strumento più attagliato per vincere questa battaglia sta proprio nella formazione. Anche attraverso la qualità e la serietà di quel che proponiamo per educare le nuove generazioni possiamo riaffermare la nostra autorevolezza".

Prima di procedere alla consegna dell'Ordine del Cherubino, il professor Mancarella ha ricordato che "il tratto che accomuna le biografie di tutti i premiati odierni è l'eccellenza scientifica declinata nei diversi campi del sapere, ma nei loro profili riconosco in modo spiccato una dote ancora più preziosa: la disponibilità a mettersi al servizio della nostra Università (e dell’intera collettività), ricoprendo ruoli di rilievo e di responsabilità, e a impegnarsi per la crescita dell’Ateneo (e dell’intera società)".

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Le professoresse e i professori ordinari insigniti quest’anno sono stati venti, dieci per il 2018 e dieci per il 2019.

Hanno ricevuto l’Ordine del Cherubino per il 2018, in ordine di anzianità di servizio: Dario Andrea Bini del Dipartimento di Matematica, Amelio Dolfi del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Claudia Martini del Dipartimento di Farmacia, Michele Marroni del Dipartimento di Scienze della Terra, Antonio Bicchi del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, Paolo Nello del Dipartimento di Scienze Politiche, Pier Mario Pacini del Dipartimento di Economia e Management, Marco Collareta del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, Mauro Ferrari del Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia e Franco Verni del Dipartimento di Biologia.

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Gli insigniti per il 2019, sempre per anzianità di servizio, sono Roger Fuoco del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale, Massimo Guiggiani del Dipartimento di Ingegneria Civile e Industriale, Mario Petrini del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Francesco Fidecaro del Dipartimento di Fisica, Marco Nardi del Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica, Massimo Ceraolo del Dipartimento di Ingegneria dell’Energia, dei Sistemi, del Territorio e delle Costruzioni, Marcella Bertuccelli del Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica, Rossano Massai del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-Ambientali, Alberto Gargani del Dipartimento di Giurisprudenza e Paolo Ferragina del Dipartimento di Informatica.

Al termine della cerimonia il rettore ha conferito l'Ordine del Cherubino alla memoria alla professoressa Cinzia Chiappe, del Dipartimento di Farmacia, scomparsa di recente.

 

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Pisa si prepara a tremare di paura. Dal 7 aprile al 1° settembre 2019, il Museo della Grafica (Comune di Pisa, Università di Pisa) presenta una mostra che indaga la figura del regista del brivido Alfred Hitchcock (1899-1980). Curata da Gianni Canova e prodotta e organizzata da ViDi, "Alfred Hitchcock nei film della Universal Pictures", presenta 70 fotografie e contenuti speciali provenienti dagli archivi della Major americana che conducono il pubblico nel backstage dei principali film di Hitchcock, facendo scoprire particolari curiosi sulla realizzazione delle scene più celebri, sull’impiego dei primi effetti speciali, sugli attori e sulla vita privata del regista inglese.

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Celebrato come uno dei principali e più influenti innovatori della storia del cinema, Hitchcock è famoso per il suo ingegno, le trame avvincenti, la gestione delle camere da presa, l’originale stile di montaggio, l’abilità nel tener viva la tensione in ogni singolo fotogramma. “Hitchcock, come hanno detto i critici della nouvelle vague – afferma Gianni Canova - è stato uno dei più grandi creatori di forme di tutto il Novecento. I suoi film, per quante volte li si riveda, sono ogni volta una sorpresa, ogni volta aprono nuove prospettive attraverso cui osservare il mondo e guardare la vita”.

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Il percorso espositivo analizza i principali capolavori di Hitchcock, prodotti dalla Universal Pictures. Primo fra tutti Psyco (1960), una delle sue opere più controverse che riuscì a battere tutti i record di incassi e fece fuggire il pubblico dalle sale in preda al panico. Un’occasione per vedere il dietro le quinte del metafisico Motel Bates, conoscere il personaggio inquietante di Norman, la doppia personalità di Marion e la celebre scena della doccia.

Una sala del Museo della Grafica è dedicata a Gli Uccelli (1963), pellicola in cui introdusse numerose novità nel campo del suono e degli effetti speciali; con ben 370 trucchi di ripresa, il film richiese quasi tre anni di preparativi a causa della sua complessità tecnica.

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L’itinerario nell’universo hitchcockiano prosegue con La Finestra sul cortile (1954), con James Stewart che interpreta il fotoreporter ‘Jeff’ Jeffries, costretto su una sedia a rotelle per una frattura alla gamba e che, per vincere la noia, spia le vite dei vicini dal proprio appartamento, fino a convincersi che in un appartamento si sia consumato un delitto. Il film fu un grande successo; uscito nell’agosto 1954, nel maggio 1956 aveva già incassato 10 milioni di dollari.

E ancora, La donna che visse due volte (1958), capolavoro divenuto oggetto di venerazione, che racconta una delle storie d’amore più angoscianti del cinema, narrata attraverso un numero infinito di angolazioni e riprese straordinarie nei luoghi più famosi di San Francisco.

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Il materiale fotografico getta inoltre uno sguardo su altri celebri film come Sabotatori (1942), L’ombra del dubbio (1943), Nodo alla gola (1948), La congiura degli innocenti (1955), L’uomo che sapeva troppo (1956), Marnie (1964), Il sipario strappato (1966), Topaz (1969), Frenzy (1972) e Complotto di famiglia (1976).

Lungo tutto il perimetro della mostra, il visitatore è accompagnato da una serie di approfondimenti video di Gianni Canova.

Una sezione è inoltre dedicata alla musica che ha connotato alcuni dei suoi film, tra cui quella di Bernard Herrmann, compositore statunitense che ha scritto, tra le altre, le celebri colonne sonore per La donna che visse due volte e Psyco, che furono parte integrante e fondamentale per la costruzione del senso di attesa hitchcockiano. Chiude idealmente l’esposizione il montaggio con le celebri e fugaci apparizioni di Hitchcock sulla scena. Nati come simpatiche gag, i cammei divennero col tempo una vera e propria superstizione. Il pubblico iniziò ad attenderli con impazienza e per evitare che lo spettatore si distraesse troppo durante il film, il regista decise di anticiparli ai primissimi minuti dell’inizio.

Il catalogo della mostra è curato da Skira.

Dal 3 all’8 aprile, si riunisce a Pisa, per la prima volta in Italia, il Comitato direttivo dell’Associazione Internazionale Docenti di Tedesco L2 (Internationaler Deutschlehrerverband e.V. /IDV). Scopo dell’incontro è dare veste finale al progetto scientifico del convegno a cura dell’Associazione che si realizzerà a Lipsia nel luglio 2019, coinvolgendo circa cento rappresentanti delle Associazioni nazionali di Germanistica di tutti i contenenti, tra cui naturalmente l’Associazione Italiana di Germanistica/AIG.

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Riunione del Direttivo IDV, New Orleans, novembre 2018.


Fanno parte del Direttivo IDV la professoressa Marianne Hepp, titolare di Lingua e traduzione tedesca del dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell'Università di Pisa, che lo presiede dal 2009, e quattro colleghi provenienti da India, Brasile, Polonia e Bosnia, vi partecipano inoltre esperti dei quattro maggiori paesi di lingua tedesca (Germania, Austria, Svizzera, Liechtenstein).

Tra le realizzazioni principali dello IDV si annovera l’organizzazione del Convegno Internazionale Docenti di Tedesco (Internationale Deutschlehrertagung /IDT), massimo forum internazionale dedicato alla disciplina Lingua e traduzione tedesca. Al prossimo appuntamento, fissato per il 2021 con sede presso l’università di Vienna, si attende la partecipazione di oltre 3.000 convegnisti.

Il comitato IDV sarà ospite del dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa. Il direttore del dipartimento, Rolando Ferri, darà il suo benvenuto all’apertura della riunione in lingua tedesca.

Presto lavoreranno in team di ricerca internazionali e saranno chiamati a condividere i risultati dei loro studi e le loro scoperte con il pubblico più ampio. Per farlo serve una grande preparazione scientifica, ma questa da sola non basta: i dottorandi dell’Università di Pisa si preparano a diventare ricercatori di successo frequentando il corso di “Academic English for PhDs” organizzato dal CLI, il Centro Linguistico d’Ateneo, e tenuto da Joanne Spataro, un’iniziativa che nell’edizione 2019 ha coinvolto 233 partecipanti, per un totale di 8 corsi di 30 ore di lezione ciascuno.

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I dottorandi e le dottorande dell'area umanistica insieme a Joanne Spataro.

Il corso è partito come progetto pilota nel 2015 soltanto per alcuni dottorati ma, su impulso dell’Ateneo, è stato esteso ai corsi di tutte le aree disciplinari: «Ci è sembrato opportuno rendere il corso di Academic English una tappa necessaria nel percorso formativo di tutti gli studenti del primo anno di PhD - commenta Marcella Aglietti, delegata del rettore per i dottorati di ricerca – I nostri allievi hanno così la possibilità di acquisire strumenti e competenze che, unite alla loro ottima preparazione scientifica, li aiuteranno ad affermarsi nel mondo della ricerca».

L’offerta formativa proposta dal CLI è finalizzata all’acquisizione della consapevolezza delle strutture linguistiche fondamentali per la scrittura e la pubblicazione di articoli scientifici in lingua inglese, nonché delle abilità linguistiche che sono necessarie in contesti accademici internazionali, come convegni, seminari e workshops. Ma non solo: «La particolarità del nostro corso – spiega Silvia Bruti, direttrice del CLI – è che si propone di fornire anche “soft skills”, competenze trasversali alla mera conoscenza della lingua inglese: i ragazzi imparano a lavorare in team, a sviluppare pensiero critico, capacità sociali e creatività, confrontandosi costantemente con dottorandi del proprio settore scientifico e con quelli appartenenti ad altri ambiti disciplinari. Imparano inoltre ad affrontare la stesura di un manoscritto scientifico partendo da una costante analisi comparativa tra la propria lingua madre e la lingua inglese, tutte competenze indispensabili nella loro futura carriera di ricercatori».

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Un momento della lezione di Joanne Spataro.

Alla fine del corso i ragazzi sono chiamati a tenere una presentazione dei loro progetti di ricerca, mettendo in pratica ciò che hanno acquisito a lezione: «Chiarezza nell’esposizione, efficacia delle slide, ma anche postura, gestualità e capacità di coinvolgemento del pubblico sono gli elementi che i ragazzi devono saper gestire al meglio in questa occasione – aggiunge Joanne Spataro – È affascinante accompagnare in questo percorso i dottorandi, che vivono questa esperienza con molto entusiasmo e partecipazione».

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Una dottoranda presenta il suo progetto di ricerca.

C’è anche una studentessa dell’Università di Pisa tra i mille neolaureati meritevoli selezionati da Fondazione Italia-Usa che avranno la possibilità di partecipare gratuitamente al master online “Global marketing, Comunicazione e Made in Italy - edizione speciale Giornalismo e uffici stampa”, promosso dalla Fondazione Italia Usa, Centro Studi Comunicare l'Impresa e Agenzia Nova, con l’adesione di MIUR e MiBAcT. Simona Izzo, 23 anni, originaria di Telese Terme (BN), si è laureata da poco in “Discipline dello spettacolo e della comunicazione” e nei giorni scorsi è stata premiata nell’Aula dei Gruppi Parlamentari della Camera dei Deputati a Roma, dove le è stato consegnato un attestato di “social media reporter” riconosciuto da Agenzia Nova.

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La neo dottoressa ha svolto una tesi dal titolo “La Valle Telesina: comunicazione e promozione”, discussa con il professo Carlo Marletti. Il suo un progetto di studio è incentrato sulla sua terra di origine, la Valle Telesina e consiste in una descrizione storico-artistica di tutti i comuni, nell’identificazione di quella che è l’identità del territorio – beni storico-artistici, prodotti tipici, tradizioni e paesaggio – e infine nella creazione di un brand che permetta di comunicare e promuovere questa zona.

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«Il percorso di studi all’Università di Pisa è stato veramente fondamentale ed efficace e mi ha permesso di incontrare docenti molto preparati che hanno saputo far crescere la mia passione per la comunicazione – commenta la neolaureata – Frequentando il corso, ho avuto l’opportunità di creare progetti di comunicazione per musei e sviluppare la mia creatività, qualità fondamentale che è in ognuno di noi. I miei progetti per il futuro sono sicuramente legati allo studio, vorrei completare ed accrescere le mie conoscenze e competenze, ma spero di potermi affacciare presto al mondo del lavoro per mettere in pratica tutto ciò che ho studiato in questi anni».

sassi cover insideMaria Michela Sassi, professoressa di Storia della Filosofia Antica presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, è autrice del volume The Beginnings of Philosophy in Greece, una recente traduzione della Princeton University Press del libro Gli Inizi della filosofia in Grecia edito da Bollati Boringhieri.
Nel saggio la professoressa riparte dagli interrogativi canonici – il quando e il come del pensiero, la sua natura specifica e le sue forme distintive – per ricomporre la trama del sapere arcaico attraverso i punti di fuga, le accelerazioni temporali, le tecniche cognitive (prima fra tutte la scrittura), l’agonismo intellettuale che resero possibile quello che un tempo si sarebbe chiamato «il miracolo greco». 

Di seguito una presentazione del volume a firma dell'autrice.

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Solo nell’età di Platone si definisce l’idea che l’”amore di sapere” (questo il senso del conio philosophia) sia un’attività specifica, e i primi pensatori greci non fanno “filosofia” consapevolmente. La sophia dell’età greca arcaica era nozione fluida che si stendeva dai poeti agli studiosi di matematica, e quelli che ora chiamiamo filosofi presocratici erano percepiti come portatori di una sapienza priva di qualsiasi caratterizzazione disciplinare. Ma si trattava certo di una sapienza con nuovi oggetti (il mondo della natura, per esempio) e un piglio critico peculiare.

Quella ragione critica che ritengo cifra essenziale della filosofia, e che come tale trova davvero i suoi inizi nella Mileto di Talete (come sostengo contro una tendenza interpretativa a svalutare la portata filosofica del pensiero presocratico), è una ragione che non si esprime solo nei modi dell’argomentazione. Può appoggiarsi all’autorità di una rivelazione divina, come in Parmenide, o addirittura alla proclamazione della propria origine divina, come in Empedocle. Entrambi ricorrono al verso della tradizione epica, l’esametro, adatto a narrare un mondo di dèi ed eroi. Eraclito, d’altro canto, modella sapientemente i suoi detti enigmatici su moduli oracolari. Ma linguaggio e attitudine da poeta ispirato o veggente, in tutti questi pensatori, convivono con una riflessione sul mondo della natura e sull’anima e sulle modalità con cui queste realtà e i loro princìpi non manifesti possono essere attinti andando oltre i dati sensibili.

A conclusione del mio discorso, nell’ultimo capitolo, insisto sulla necessità di riconoscere che la filosofia nasce in Grecia grazie all’interazione di molteplici stili di razionalità, o “razionalità multiple”. Ho così raccolto l’invito di Yehuda Elkana a ripensare quella nozione di ragione argomentativa che costituisce la più forte eredità del pensiero illuministico, costretti dalla complessità del moderno a portare l’attenzione sui momenti di tensione dialettica e la compresenza di alternative che la realtà esibisce. Intreccio di argomentazioni logiche e immaginario significa apertura alla complessità: il pensiero filosofico ai suoi inizi non merita forse di attrarci proprio per questo?

Maria Michela Sassi

A symbol of rebellion, of belonging, a badge of shame, a sign of magic but also a fashion accessory and a mark of freedom. Over thousands of years, tattooing has represented all of these and now, for the first time, an original study retraces its history up to the present day. The book in question, "Sulla nostra pelle. Geografia culturale del tatuaggio" (Pisa University Press, 2019), was written by Paolo Macchia, associate professor of the University of Pisa and Maria Elisa Nannizzi, his student.

 

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Maria Elisa Nannizzi and Paolo Macchia

 

“Our skin speaks,” says Paolo Macchia. “What we have tried to understand is how tattoos have been used over the ages to express ideas, concepts and opinions. In other words, we want to demonstrate how this form of communication has changed over time, taking on new meanings according to the different cultures.”

The book, therefore, traces a cultural geography of tattoos in the West, from prehistoric times to the present day, with a special focus on the tribal tattoos of the Māori from New Zealand. The starting point is an estimate of the phenomenon based on the data available. From here, for example, it can be seen that 12.8% of the population in Italy has a tattoo, mostly people in the 18-44 age range. This figure is in line with the European average which is around 12% but much lower than that of the United States where the data show an average of 30%.

As regards the tattoo artists, in Italy there are around 2,800 enterprises linked to this activity mainly concentrated in the North with a share of almost 60% of the business. Lombardy is the leader while the Centre lies in mid position and the South and islands do not even total one fifth of the endeavors.

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This picture of the present situation is accompanied in the book by a historical analysis based on literary, iconographic and historical sources. These sources reveal that in Ancient Greece and Ancient Rome tattoos were used as a form of punishment, a stigma to mark fugitives or prisoners of war. With the spread of Christianity, which rejected any form of marking on the body, tattoos then lost their importance, but held out, in spite of everything, until the Middle Ages where ironically they came back into fashion among pilgrims. Throughout the modern period, therefore, tattoos maintained above all their punitive significance and were used to mark individuals on the fringes of society such as prostitutes, criminals and slaves. However, a new phase of popularity and diffusion occurred during the 18th and 19th centuries when tattoos returned to Europe following the exploration and discovery of the Far East and Polynesia. More recently, tattoos have become markers of the great changes which have overturned the socio-political system worldwide from the 1960s onwards, and the main characters in this case are hippies, punks, bikers and even skin-heads for whom tattoos have become a strongly political mark.

 

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“In previous decades tattoos were used to express tendencies and social changes, whereas today they seem to be characterized, above all on an individual level, as market commodities, subject to fashion trends and continuous changes in taste,” concludes Paolo Macchia. “Although many people define this as being a phase of  banalization and depletion, it is what has finally established tattoos on a worldwide basis. Even today, skin is a means of communication, but what is different is the fact that it does not speak to a group but rather, to the individual and about the individual. Since a codified language no longer exists, therefore, in order to understand the meaning of a tattoo, it is necessary to ask the person wearing it.”

It is also worth mentioning the vast gallery of famous people who have flaunted a tattoo and are mentioned in the book. Winston Churchill, for example, had an anchor tattooed on his forearm as a reminder of his time as a correspondent in Cuba, India and South Africa, and his mother, Lady Churchill, had a small snake tattooed on her wrist, which she hid under a bracelet on important occasions; Tsar Nicholas II of Russia had a dragon tattooed on his left arm and Frederick IX, King of Denmark flaunted tattoos on his arms and chest, while the president of the United States, Theodore Roosevelt wore the family’s coat of arms on his chest. In the present day, there are examples everywhere: from the long line of footballers (Beckham, Icardi, Nainggolan, Gabigol, Ibrahimovic and Borriello) through the world of show business (Lady Gaga, Robbie Williams and Angelina Jolie) to Italy with Fedez, Fabrizio Corona, and Asia Argento, the never-ending ‘tronisti’ and even Belen, who created havoc with her butterfly.

 

 

Emblema di ribellione, di appartenenza, marchio di infamia, segno magico ma anche accessorio di moda e simbolo di libertà. Nel corso dei millenni il tatuaggio è stato tutto questo e per la prima volta un originale studio ne ripercorre la storia sino alla contemporaneità. Il volume in questione è "Sulla nostra pelle. Geografia culturale del tatuaggio" (Pisa University Press, 2019) scritto dal professore Paolo Macchia del dipartimento di Civiltà e Foprme del Sapere dell’Università di Pisa e dalla dottoressa Maria Elisa Nannizzi, sua allieva.

 

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Da sinistra Maria Elisa Nannizzi e Paolo Macchia


“La pelle parla – racconta Paolo Macchia - quello che abbiamo cercato di capire è come il tatuaggio nelle varie epoche storiche sia stato usato per esprimere idee, concetti e opinioni, in altre parole vogliamo far vedere come questa forma di comunicazione sia cambiata nel tempo assumendo sempre nuovi significati a seconda delle diverse culture”.

Il volume traccia così una geografia culturale dei tatuaggi in occidente, dalla preistoria ad oggi, con un focus sui tatuaggi tribali dei Maori della Nuova Zelanda. Il punto di partenza è una stima del fenomeno a partire dai dati disponibili. Si scopre così ad esempio che in Italia circa il 12,8% della popolazione sarebbe tatuata, in prevalenza persone dai 18 ai 44 anni, un dato in linea con la media Europea che si attesta al 12%, ma ben al di sotto degli Stati Uniti dove la percentuale è al 30.

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A sinistra, soldato statunitense tatuato con simboli patriottici nella prima metà del XX secolo. A destra, biglietti da visita di tatuatori nella stessa epoca. Fonte: Mc Comb (2015), pp. 45 e 65.


Passando invece ai tatuatori, in Italia ci sarebbero circa 2.800 imprese legate a questa attività con una concentrazione nel Settentrione che ha quasi il 60% di tutti gli operatori, Lombardia in testa, mentre il Centro si pone in posizione intermedia e il Mezzogiorno, isole comprese, non raccoglie nemmeno un quinto delle imprese.

A questa fotografia della situazione attuale il volume unisce un’analisi storica a partire da fonti storiche, letterarie e iconografiche. Si scopre così ad esempio che nella Grecia e nella Roma antiche il tatuaggio fu utilizzato perlopiù a scopi punitivi, come stigma per marchiare fuggiaschi o prigionieri di guerra. Con la diffusione del Cristianesimo, che ripudiava ogni forma di marchio sul corpo, il tatuaggio perse invece la sua importanza, ma nonostante tutto resistette durante il Medioevo dove, ironia della sorte, fu particolarmente in voga fra i pellegrini. Per tutto il periodo moderno il tatuaggio mantenne quindi soprattutto un significato punitivo e venne usato per marchiare gli individui al margine della società come prostitute, criminali e schiavi.

Ma una nuova fase di popolarità e di diffusione si ebbe a partire dal Sette e Ottocento, quando il tatuaggio ritornò in Europa a seguito delle esplorazioni e delle scoperte in estremo oriente e in Polinesia. Più di recente il tatuaggio è diventato invece l’emblema dei grandi cambiamenti che hanno stravolto il sistema politico-sociale globale a partire dagli anni ’60 del Novecento e i protagonisti in questo caso sono gli hippies, i punk, i bikers fino agli skin-head, dove il tatuaggio è diventato un marchio fortemente politico.

 

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A sinistra, soldato statunitense tatuato con simboli patriottici nella prima metà del XX secolo. A destra, biglietti da visita di tatuatori nella stessa epoca. Fonte: Mc Comb (2015), pp. 45 e 65. [Nel testo Sulla nostra pelle, p. 43]



Se nei decenni scorsi il tatuaggio esprimeva tendenze e cambiamenti sociali, oggi sembra caratterizzarsi soprattutto a livello individuale, come un bene di mercato, soggetto a mode e continui cambiamenti del gusto – conclude Paolo Macchia – sebbene molti definiscano questa come una fase di banalizzazione e di svuotamento essa è quella che ha dato definitiva affermazione globale al tatuaggio. Anche oggi la pelle è uno strumento di comunicazione, ma ciò che è diverso è il fatto che non parla più ad un gruppo, ma al singolo e del singolo e dunque, dato che non esiste più un linguaggio codificato, per sapere cosa significa un tatuaggio, oggi occorre chiederlo a chi lo indossa”.

Un discorso a sé merita infine l’amplissima galleria delle personalità che hanno sfoggiato un tatuaggio e che sono citate nel libro. Winston Churchill per esempio aveva un’àncora sull’avambraccio in ricordo dei tempi passati come corrispondente tra Cuba, India e Sudafrica e anche la madre, Lady Churchill, aveva un piccolo serpente sul polso che copriva, nelle occasioni importanti, con un bracciale; lo zar Nicola II di Russia, aveva un dragone sul braccio sinistro e Federico IX, Re di Danimarca sfoggiava braccia e petto tatuati, mentre il presidente statunitense Theodore Roosevelt portava sul petto lo stemma araldico della propria famiglia. Arrivando ai giorni nostri gli esempi spaziano ovunque: dalla lunga schiera di calcatori (Beckham o Icardi, Nainggolan o Gabigol, Ibrahimovic o Borriello) passando poi al mondo dello spettacolo (Lady Gaga, Robbie Williams e Angelina Jolie) fino ad arrivare in Italia con Fedez, Fabrizio Corona, Asia Argento, l’infinità di tronisti o volendo anche Belen, che per quella farfalla creò un putiferio.

 

 

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Writing about the social history of Ancient Egypt beyond the grandeur of the pharaohs and queens and focusing instead on the population and the lower classes: this is the challenge behind the research project of national interest (PRIN) ‘Pharaonic Rescission’ (PROCESS) of the University of Pisa which has just been awarded funding of over two hundred thousand euros  by the Ministry of Education, Universities and Research (MIUR). The project was conceived and proposed by Gianluca Miniaci from the Department of Civilisations and Forms of Knowledge, one of the two researchers under the age of forty in Italy who have managed to obtain ministerial funds for a project in the “Junior” category for sector SH6 “The Study of the Human Past: archeology and history”.

“Up to the present, we have only read about the part of history dealing with the pharaohs and the elite who left us inscriptions, records of great deeds, temples and monumental tombs, archeological treasures, all fragments of their ‘memories’. We know almost nothing about the common people who were not able to leave such evident traces in history,” recounts Gianluca Miniaci. “Now it’s time to write a new story in history, a story where the protagonist is that invisible mass of people, for the most part made up of workers, merchants and farmers, but also of rich and wealthy people who did not play an important role in the politics of the time.”

The social history of Ancient Egypt in the second millennium B.C. will, therefore, be rewritten from ‘the bottom up’. In particular, through the materiality analysis of objects, in other words, thanks to archaeometric analyses and the data provided by archeology, it will be possible to extract a large amount of information about the spatial temporal contexts in which the objects moved in antiquity, from their creation (simply the extraction of the raw materials) to their production, circulation and use. Artifacts from the Egyptian collections of the most important Italian, European and international museums will therefore be fundamental in outlining the identikit of the people who produced the material culture of Ancient Egypt.

“In order to understand the originality of our approach, we can use two objects as an example,” explains Miniaci. “One is an unguent vase from the necropolis of Badari in Egypt with the name of the pharaoh Pepi II inscribed on it (ca. 2250 B.C.) and the other, a beetle with the name of the pharaoh Sobekemsaf (ca. 1650 B.C.), today preserved in the British Museum.

In this way, by means of a series of sophisticated analyses such as the XRF spectrometry, we discover, for example, that the vase is made of calcite, a material that comes from a cave 80 km north of the site in which the object was found and this already tells us the story of one or more people who went to Badari to extract this block of stone. The beetle, instead, is made of green Diaspore, a material which was imported from outlying areas of Egypt, or outside the country, and which involved a greater number of people from distant places and countries. Thanks to analyses using the scanning electron microscope (SEM), it is possible to identify traces of the manufacturing process of both the vase and the beetle and, therefore, understand which tools were used by the people who made them and what techniques they possessed, in other words, who they were and what they did. In addition, thanks to the FTIR spectrometer, it is possible to identify organic residues inside the vase and listen to another unheard voice, the voice of the people who produced the oils later poured into the vase

 

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Beetle with the name of the pharaoh Sobekemsaf

“Generally, traditional history would only consider the vase and the beetle in relation to the sovereign’s name,” concludes Miniaci. “Instead, our objective is to uncover the different stories, which are hidden and forgotten, that objects might encapsulate.”

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Scrivere per la prima volta una storia sociale dall’Antico Egitto al di là dei fasti di faraoni e regine e mettendo piuttosto al centro il popolo e le classi meno agiate. E’ questa la sfida del progetto di ricerca di interesse nazionale (PRIN) ‘Pharaonic Rescission’ (PROCESS) dell’Università di Pisa che si è appena aggiudicato un finanziamento di oltre 200mila euro dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca (Miur). A idearlo e proporlo è stato Gianluca Miniaci del dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, uno dei due ricercatori under 40 in tutta Italia che è riuscito ad ottenere i fondi ministeriali per un progetto nella categoria “giovani” per il settore SH6 “Studio del passato umano: archeologia, storia e memoria”.


“Ad oggi conosciamo solo una storia, quella dei faraoni e dell'élite, che ci hanno lasciato iscrizioni, testimonianze di grandi gesta, templi e tombe monumentali, tesori archeologici, tutti frammenti dei loro “ricordi”. Non sappiamo quasi nulla della gente comune che non ha potuto lasciare tracce così evidenti nella storia – racconta Gianluca Miniaci - ora si tratta di scriverne una nuova, una che abbia come protagonista quella massa di popolazione invisibile fatta soprattutto di lavoratori, commercianti, agricoltori, ma anche persone benestanti e socialmente agiate, che non ricoprivano un ruolo politico rilevante”.

La storia sociale dell’Antico Egitto nel secondo millennio a.C. sarà quindi ricostruita “dal basso”, in particolare attraverso l’analisi della materialità impressa negli oggetti, ovvero grazie ad analisi archeometriche e ai dati forniti dall’archeologia, sarà possibile estrarre una massa di informazioni relativa ai contesti spazio-temporali in cui gli oggetti si sono mossi nell’antichità, dalla loro creazione (banalmente l’estrazione delle materie prime) alla loro lavorazione, circolazione ed uso. I reperti delle collezioni egittologiche dei più importanti musei italiani, europei ed internazionali saranno quindi fondamentali per delineare l’identikit delle persone che hanno prodotto la cultura materiale dell’antico Egitto.

“Per capire la novità del nostro approccio prendiamo ad esempio due oggetti – spiega Miniaci - un vaso per unguenti proveniente dalla necropoli di Badari in Egitto su cui è iscritto il nome del faraone Pepi II (ca. 2250 a.C.) e uno scarabeo con il nome del faraone Sobekemsaf (ca. 1650 a.C.), oggi conservato al British Museum”.


E così attraverso una serie di analisi avanzate come la spettrometria XRF si scopre ad esempio che il vaso è fatto di calcite, un materiale che proviene da una cava situata ad 80 km a nord del sito in cui l'oggetto è stato trovato, quindi già ci racconta la storia di una o più persone che sono andate da Badari ad estrarre questo blocco di pietra. Lo scarabeo invece è composto da una pietra di diaspro verde, un materiale importato da aree periferiche, se non esterne, dell’Egitto, e quindi ha coinvolto molte più persone, di luoghi e paesi lontani. Grazie alle analisi con microscopio elettronico a scansione (SEM) si possono poi individuare le tracce di lavorazione sia del vaso che dello scarabeo e quindi capire che strumenti maneggiavano coloro che li hanno fabbricati e che conoscenze tecniche avevano, insomma, chi erano, cosa sapevano fare. Ancora, per continuare, grazie alla spettroscopia FT-IR, si possono individuare i residui organici all’interno del vaso e andare ad ascoltare un’altra voce inascoltata, di coloro che avevano prodotto gli olii poi versati nel vaso.

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 Scarabeo con il nome del faraone Sobekemsaf (British Museum EA7876 © CC BY-NC-SA 4.0)


“In genere, la storia tradizionale tenderebbe a considerare questi il vaso e lo scarabeo in relazione al nome del sovrano e basta – conclude Miniaci – il nostro obiettivo è invece di andare a scoprire le molteplici storie nascoste, e poi dimenticate, che gli oggetti possono incapsulare”.

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