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Approfondire la conoscenza delle proprietà nutritive e farmaceutiche del baobab per contribuire alla lotta contro la malnutrizione in Africa, favorendo anche la sua produzione e commercializzazione fra la popolazione locale. Con questi obiettivi ha ufficialmente preso il via a novembre il progetto “Il frutto del Baobab come fonte di sostanze nutritive e di molecole bioattive” finanziato dalla Regione Toscana nell’ambito degli interventi di cooperazione internazionale. Il progetto, che durerà un anno, è coordinato dalla professoressa Alessandra Braca e dalla dottoressa Marinella De Leo del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa, in collaborazione con l’organizzazione non governativa Aidemet e il Dipartimento di medicina tradizionale di Bamako, la capitale del Mali.

 

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Da sinistra la professoressa Alessandra Braca e la dottoressa Marinella De Leo, il dottor Sergio Giani di Aidemet ONG e la professoressa Rokia Sanogo del DMT, Bamako, Mali


“Il Baobab è un alimento base della dieta quotidiana in molte zone dell’Africa centrale e occidentale, nelle zone rurali del Mali ad esempio è consumato sia in forma solida che come bevanda - spiega Alessandra Braca - e tuttavia le sue proprietà nutritive, e potenzialmente anche farmaceutiche, sono ancora poco conosciute”.

Nell’ottica di incrementare la conoscenza scientifica sul Baobab, e contribuire così alla lotta contro la malnutrizione, il progetto prevede quindi l’indagine chimica della polpa del frutto per definire il suo valore nutrizionale e le sue potenzialità come fonte di sostanze biologicamente attive a scopo medicinale.

“Nei nostri laboratori effettueremo le analisi del frutto per l’identificazione dei polifenoli ed eventuali altre molecole bioattive – aggiunge la professoressa Braca – quello che sappiamo finora è che la polpa del baobab è particolarmente ricca di fibre, sali minerali, amminoacidi, vitamina C, mentre ha un basso tenore di zuccheri, tutte proprietà che lo rendono un alimento ad alto potere nutrizionale”.

Da parte loro i partner del Mali si occuperanno principalmente del controllo di qualità di frutti e della formulazione di prodotti a base di baobab. Un altro ramo di intervento del progetto sarà infatti quello di cercare di promuovere la produzione del baobab, la sua trasformazione ed il commercio fra le popolazioni locali al fine di valorizzare le risorse del luogo e di favorire l’educazione a un regime alimentare sano e sicuro.


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L'albero del Baobab, il frutto e il logo del progetto



 

Con una giornata di celebrazioni ospitata nell’Aula Magna della Scuola di Ingegneria, l'E-Team squadra corse dell’Università di Pisa ha festeggiato i suoi primi 10 anni insieme ai protagonisti di un'avventura iniziata nel 2007. Per l’occasione sono venuti a portare la loro testimonianza ex membri della squadra che, anche grazie all’esperienza maturata nell’E-Team, sono riusciti a inserirsi con successo nel mondo del lavoro.

Guarda il video di presentazione della squadra.

Guarda il video che ripercorre la storia dell'E-team.

All’evento sono intervenuti il rettore Paolo Mancarella, il prorettore vicario Nicoletta De Francesco, la prorettrice per gli studenti Antonella Del Corso e il presidente della Scuola di Ingegneria Alberto Landi. Hanno portato la loro testimonianza Francesco Castellana, primo team leader del gruppo, Francesco Lenzi, team leader nel 2009 e Marco Melani, laureato in Economia e Commercio, che nel team è stato responsabile della divisione “Business Plan”. Oltre a loro è intervenuto anche il professor Massimo Guiggiani, primo Faculty Advisor della squadra, considerato uno dei padri dell’E-Team, e che tuttora è impegnato quotidianamente ad aiutare la squadra con consulenze tecniche e forte supporto motivazionale. Inoltre hanno partecipato gli sponsor che da anni supportano e credono nell’attività della squadra corse.

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Il rettore al volante della monoposto insieme ad alcuni membri dell’E-team.

« I meriti del progetto dell’E-Team vanno oltre gli eccellenti risultati sportivi ottenuti nel tempo, che riempiono d’orgoglio l’Ateneo di Pisa – ha commentato il rettore Paolo Mancarella – L’E-team è un’occasione preziosa per i giovani, un eccellente banco di prova delle proprie competenze e capacità, nonché una vetrina importante, che mette in contatto i ragazzi con aziende e sponsor. Ci tengo a ringraziare uno a uno tutti i ragazzi del team, quelli di oggi e quelli del passato: sono loro i protagonisti di questa avventura lunga 10 anni e il mio augurio è che la passione e l’impegno dimostrati in questo tempo li accompagni per tutta la vita futura, lavorativa e personale».


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Alcuni membri dell'E-Team insieme al rettore Paolo Mancarella, al prorettore vicario Nicoletta De Francesco e al presidente della Scuola di Ingegneria Alberto Landi.

Il progetto dell’E-Team nasce nel 2007 ad opera di un gruppo di studenti e dottorandi di Ingegneria sotto la supervisione del professore Emilio Vitale, allora preside della facoltà di Ingegneria, e del professor Massimo Guiggiani, che per molti anni è stato Faculty Advisor del team. Con il passare del tempo il progetto si è ingrandito coinvolgendo anche studenti provenienti da altri corsi di laurea in Economia, Discipline dello Spettacolo e della Comunicazione e Giurisprudenza, considerando che la squadra non è impegnata soltanto sotto il profilo della progettazione e della costruzione, ma anche sul fronte del marketing, delle pubbliche relazioni e della ricerca e gestione delle risorse economiche.

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Foto di gruppo dell'E-Team.

L’E-Team, che oggi conta circa 80 membri, partecipa ogni anno alla Formula SAE e Formula Student Germany, competizioni automobilistiche per veicoli monoposto progettati da studenti universitari, che prevedono prove statiche e gare di velocità. La squadra ha raggiunto in questi anni diversi successi, tra questi, si ricorda la partecipazione alla Formula SAE in Italia nel 2015, in occasione della quale ottiene il primo posto nella Classe 3 e nel 2016 la vittoria all’evento “Business Plan” di FSAE Italy e a quello di FSH - Formula Student Hungary. Quest’anno per la prima volta la vettura dell’E-Team è riuscita a terminare tutte le prove statiche e dinamiche in Italia al circuito di Varano de’ Melegari e in Germania al circuito di Hockenheim.

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I ragazzi consegnano la maglia della squadra al rettore Paolo Mancarella e un regalo al professor Alberto Landi e alla prorettrice Antonella Del Corso.

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I ragazzi consegnano una targa al professor Massimo Guiggiani e al primo team leader della squadra Francesco Castellana.

 

Cosa ci rende umani? Un team internazionale di ricercatori ha scoperto nella corteccia cerebrale dell’uomo un particolare tipo di neuroni, gli interneuroni dopaminergici, che sono invece assenti in quella delle grandi scimmie, i nostri parenti più prossimi esistenti. Lo studio, durato sei anni, è stato pubblicato sull’ultimo numero della rivista «Science» e come unico italiano fra gli autori c’è Marco Onorati, ricercatore al Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e “visiting scientist” alla Yale University, nel laboratorio del professore Nenad Sestan.

“Il nostro cervello possiede capacità cognitive che lo rendono unico – spiega Onorati – e l’identificazione nella corteccia cerebrale umana degli interneuroni dopaminergici, non presenti in quella delle grandi scimmie africane come scimpanzé, bonobo e gorilla, costituisce un passo importante nella comprensione di cosa ci rende umani”.

 

Neurone

 

L’analisi comparativa del profilo genico del cervello umano e di quello degli altri primati ha dunque rivelato la presenza di alcuni geni specificamente arricchiti nel nostro cervello fra cui quelli per la sintesi della dopamina. I neuroni dopaminergici si trovano infatti nella sostanza nera del mesencefalo sia dell’uomo che degli altri primati, ma solo nell’uomo sono presenti anche nella corteccia cerebrale. E proprio capire la loro funzionalità è stato il compito del ricercatore dell’Ateneo pisano che li ha generati in laboratorio grazie all’utilizzo di cellule staminali pluripotenti.

“Per quanto riguarda i numeri, questi interneuroni sono rari, meno dell’1% – conclude Onorati – e tuttavia, essendo coinvolti nella sintesi della dopamina, possono regolare funzioni cognitive superiori tipiche dell’uomo, come la memoria e il comportamento, oltre ad essere coinvolti in malattie come il Parkinson o alcune forme di demenza, per le quali questo studio potrà in futuro fornire nuove prospettive”.

Qui i link all’articolo su «Science» di cui sono primi autori i ricercatori Andre M. M. Sousa e Ying Zhu della Yale University e al press release della Yale University.

È scomparso all’età di 76 anni il professor Giuseppe Forasassi, docente Emerito dell’Università di Pisa. Nato a Firenze nel 1941, ha insegnato "Impianti Nucleari” fino alla quiescenza nel 2011. È stato titolare di diversi corsi di Ingegneria nucleare e meccanica. Ha svolto docenza anche nel corso di dottorato in Ingegneria nucleare, nei master di II livello in Nuclear Safety and Security e Tecnologia degli Impianti Nucleari presso l'Università di Pisa e in quello in Scienza e Tecnologia degli Impianti Nucleari dell'Università di Genova.
Il professor Forasassi è stato direttore del dipartimento di Costruzioni meccaniche e nucleari per due mandati (dal 1987 al 1993), presidente del corso di laurea magistrale in "Ingegneria nucleare e della sicurezza" della facoltà di Ingegneria dell'Università di Pisa e presidente per due mandati del Centro Bibliotecario della facoltà di Ingegneria. Tra le varie cariche ricoperte ricordiamo anche che è stato presidente del Consorzio Interuniversitario per la Ricerca Tecnologica Nucleare (CIRTEN), che riunisce tutte le 7 università italiane in cui è attivo un corso di laurea (o corsi di indirizzo) in Ingegneria nucleare, tra cui in particolare i Politecnici di Milano e Torino e le Università di Bologna, Padova, Palermo, Pisa e Roma la “Sapienza”. Nel 2004 Forasassi è stato insignito dell’ordine del Cherubino e nel 2013 è stato nominato professore emerito dell’Università di Pisa.

 I funerali del professor Forasassi si terranno venerdì 24 novembre, alle ore 10, nella Chiesa del Sacro Cuore in via Bonanno.

Di seguito pubblichiamo il ricordo del professor Forassassi, scritto dal professor Donato Aquaro e dai docenti di Ingegneria Nucleare

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In ricordo del professor Giuseppe Forasassi

Negli oltre cinquant’anni di vita accademica, un numero elevatissimo di studenti d’Ingegneria ha considerato il professor Forasassi un Maestro fondamentale nella propria formazione professionale. Per molti di noi, suoi colleghi dell’area dell’ingegneria meccanica e nucleare, è stato il Maestro che ci ha insegnato il rigore scientifico, l’indispensabilità di un impegno serio unito ad un costante entusiasmo per poter svolgere proficuamente la nostra attività didattica e scientifica. Ci ha inculcato attraverso il suo esempio, un sentimento profondo di attaccamento all’Istituzione Universitaria così come lo spirito di servizio per la collettività quale unico stimolo nel rendersi disponibile ad assumere funzioni di responsabilità.
Per la sua statura di docente e ricercatore, noto in ambito nazionale ed internazionale, l’Ateneo di Pisa ha insignito il professor Forasassi del titolo di Professore Emerito.
Nella comunità universitaria è presente il sentimento positivo che lega senza soluzione di continuità il Maestro al Discepolo, anche nell’evolversi e talvolta capovolgersi dei ruoli. La scomparsa del Maestro determina in noi un sentimento di tristezza identico a quello determinato dalla scomparsa dei nostri cari. Ho svolto insieme al proessor  Forasassi per circa quarant’anni attività di ricerca e didattica. È stato il mio professore durante il corso di laurea e nei successivi livelli di formazione. È stato il mio direttore di dipartimento ed io sono in seguito diventato il suo direttore. Una collaborazione lunga e proficua basata su reciproca stima. La scomparsa del professor Forasassi rappresenta un doloroso evento per me, per tutti i colleghi dell’area dell’ingegneria nucleare e per l’intero Ateneo.
Con questi sentimenti esprimiamo il nostro più sentito cordoglio alla famiglia.

Donato Aquaro e i docenti di Ingegneria Nucleare

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Studi sull’Unione Europea in prima linea al dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa con due corsi Jean Monnet attivi e un terzo appena giunto alla sua conclusione, co-finanziati dalla Commissione Europea nell’ambito del programma Erasmus+ e aperti a tutti gli studenti, docenti dell'Ateneo e ai soggetti interessati. I corsi Jean Monnet promuovono l’eccellenza nell’insegnamento e nella ricerca nel settore degli studi sull’Unione Europea in tutto il mondo, oltre al dialogo tra il mondo accademico e i decisori politici, in particolare allo scopo di rafforzare la governance delle politiche dell’UE.

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La professoressa Giovanna Colombini ha ricevuto un finanziamento per lo studio e la diffusione delle attività della Corte dei conti europea dal titolo «Protecting the EU’s financial interest: role of European Court of Auditors and the cooperation with italian Corte dei conti (PEUFI)» nell’ambito della progettualità per il triennio 2017-2020. Il percorso vedrà la partecipazione di importanti esponenti della Corte dei conti europea come Pietro Russo e Eduardo Ruiz Garcia, ma anche della Corte dei conti italiana, tra cui Maria Teresa Polito, Alessandra Olessina e Claudio Galtieri. Questo progetto costituisce inoltre il primo atto di una collaborazione tra l’Ateneo pisano e la Corte dei conti europea, promosso dalla stessa professoressa Colombini.
Gli incontri – che consentiranno agli studenti di acquisire CFU per attività ed esami liberi, in base al rispettivo corso di laurea – avranno inizio il prossimo 23 e 24 novembre, con le lectio magistralis di Russo, presidente di Sezione della Corte dei conti italiana che dal marzo 1 marzo 2012 è stato nominato componente italiano della Corte dei conti europea, e di Eduard Ruiz Garcia, funzionario europeo, entrato alla Corte dei conti europea dal 1989 con funzione di auditor che oggi ne è il segretario generale.

Il professor Marcello Di Filippo ha ricevuto il finanziamento sul tema «EU migration law, human rights and democratic principles» (2015-2018). Il Modulo finanziato include il corso su «Diritto internazionale ed europeo delle migrazioni» (6 CFU, 42 ore), svolto nell'ambito della laurea magistrale in Studi internazionali, due cicli di seminari dal titolo «Regional Migration Law: Not only Europe» e «EU Migration Law: A Critical Assessment from the Academia». Durante il percorso, è stata svolta un’intensa attività di ricerca sulla politica UE dei visti, che ha portato alla pubblicazione su un sito web a libero accesso di materiale didattico, working papers e policy briefs. Nell’ultimo anno di progetto (2018), si terrà un convegno finale in cui esperti del mondo accademico, delle istituzioni europee e italiane, della società civile si confronteranno sui nodi critici della governance europea delle migrazioni e sulle prospettive di miglioramento della medesima. Il contributo della Cattedra e la connessa attività di ricerca è stato strategico anche per la definizione di alcuni profili innovativi e di riforma del sistema europeo. In tal senso, infatti, il Parlamento europeo ha da poco adottato una posizione in materia di visti che recepisce molti suggerimenti policy-oriented, provenienti dall’elaborazione svolta all’interno del progetto pisano.

Il dipartimento di Scienze politiche prosegue la propria eccellenza nell’attività di ricerca giuridica in ambito europeo, prendendo il testimone lasciato dalla professoressa Sara Poli che ha già ottenuto la cattedra Jean Monnet nel 2013 dal titolo «Good governance inside and outside the EU». Tale progetto ha portato all’organizzazione di due insegnamenti nell’ambito dei corsi di laurea triennali e magistrali del dipartimento ai quali hanno contribuito numerosi professori ed esperti provenienti dall’Unione europea, dall’Ucraina e dalla Russia. L’attività finanziata, inoltre, ha portato alla pubblicazione di numerosi articoli su riviste internazionali e un volume dal titolo «The European Neighbourhood Policy: values and principles». La professoressa Poli ha infine organizzato un workshop e un convegno internazionale sulle medesime tematiche.

Adalberto Giazotto, il fisico pioniere della ricerca sulle onde gravitazionali e ideatore del rivelatore Virgo costruito a Cascina, è morto nella notte tra il 15 e il 16 novembre. Da alcuni giorni era ricoverato all'ospedale Cisanello di Pisa. Il professor Giazotto, 77 anni, aveva indicato le frequenze nelle quali andare a cercare le onde gravitazionali, orientando sia la ricerca condotta dal rivelatore Ligo sia la realizzazione di Virgo. Alla moglie Lidia e ai figli Francesco, Alessandro, Cosima e Ilaria vanno le condoglianze del rettore Paolo Mancarella e dell'Università di Pisa.
Pubblichiamo di seguito il ricordo del professor Adalberto Giazotto, scritto dal collega Francesco Fidecaro a nome dei docenti del Dipartimento di Fisica dell'Ateneo Pisano.

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In ricordo di Adalberto Giazotto

Il 17 agosto di quest’anno, poco prima delle tre di pomeriggio a Pisa, veniva registrato dall’interferometro Virgo e dai suoi omologhi statunitensi di LIGO il passaggio di una onda gravitazionale. Il segnale era ben diverso da quello registrato negli eventi a partire dal 2015. Non due buchi neri, pura energia in grado di curvare un raggio di luce fino a catturarlo, ma due stelle di neutroni, materia compressa alla massima densità possibile dalla forza di gravità. La combinazione di Virgo e LIGO permise, indicando la direzione della sorgente, ai telescopi a terra e nello spazio di osservare un nuovo oggetto astronomico. Gli scienziati delle collaborazioni LIGO e Virgo, migliaia di astronomi e astrofisici con un centinaio di telescopi hanno lavorato in maniera frenetica per osservare tutte le fasi della “kilonova”, dall’accensione al raffreddamento. I dati hanno mostrato per la prima che in questo processo si formano, a partire dalla materia neutronica, gli elementi chimici pesanti come l’oro o l’uranio, la cui abbondanza è difficile spiegare altrimenti.

Si era realizzata la visione di Adalberto Giazotto il quale, mentre si costruiva Virgo, convinse i colleghi di LIGO a parlare degli interferometri come di una “singola macchina” distribuita su tutta la superficie terrestre con una piena condivisione dei dati, e non di una somma di tre strumenti. La sua visione si estese poi agli osservatori astronomici, e ben prima che venissero registrati gli eventi, comunità diverse si erano preparate alle osservazioni, scientificamente ma anche con accordi e protocolli, che potessero riconoscere a ciascuno il proprio contributo.

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Nato nel 1940 a Genova, Adalberto Giazotto si era laureato a Roma con una tesi di Fisica Teorica per poi unirsi al gruppo di fisica sperimentale diretto prima da Edoardo Amaldi e poi da Gherardo Stoppini, titolare della cattedra di Spettroscopia a Pisa. Assieme ad alcuni colleghi pisani si trasferì nei primi anni ’70 a Daresbury, nel Regno Unito, per svolgere esperimenti di fisica delle particelle presso un elettrosincrotrone tra i più potenti dell’epoca. Successivamente partecipò al CERN a Ginevra all’esperimento FRAMM per la fotoproduzione di particelle con charm, assieme a un folto gruppo di giovani fisici pisani.

Impossibilitato a compiere i lunghi viaggi a Ginevra si dedicò a partire dei primi anni ’80 allo studio della Relatività Generale, riconoscendo che la rivelazione delle onde gravitazionali doveva essere guidata per quanto possibile dalla natura delle sorgenti e che le tecniche sperimentali dovessero essere al servizio di tale scopo. Con gli strumenti disponibili si potevano rivelare sorgenti interessanti ma rarissime, deboli, che emettono onde oscillanti molto rapidamente. Invece altre sorgenti, intense perché composte da masse molto maggiori, generano onde che oscillano più lentamente. Quelle erano l’obiettivo di Giazotto ma gli strumenti venivano assordati dalle vibrazioni della crosta terrestre. Partendo dai primi studi furono necessari vent’anni di sperimentazione a Giazotto e al suo gruppo per capire come costruire uno strumento in grado di registrare quelle oscillazioni. Proprio quelle delle sorgenti rivelate nel 2015.
Dirigente di ricerca dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, propose assieme al francese Alain Brillet la costruzione dell’interferometro Virgo, che venne approvata con un accordo internazionale tra l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare italiano e il Centre National de la Recherche Scientifique francese nel 1994 che si impegnavano a finanziarne la costruzione. Nel 2002 le infrastrutture di Virgo, due tunnel rettilinei di tre chilometri nella campagna di Cascina, dove far viaggiare tra due specchi la luce di un laser, venivano consegnate per la sperimentazione e allo stesso tempo nasceva l’idea della “single machine”. Ci vollero altri 15 anni per giungere alla sua concretizzazione.

 Adalberto Giazotto

Dai molteplici interessi, appassionato collezionista di cristalli, manifestava la sua meraviglia per le bellezze che potevano sorgere dall’opera della natura e del tempo, così come dall’opera dell’uomo, in particolare attraverso la musica, di per sé effimera ma fonte di emozioni durature, come gli eventi che Virgo ha registrato.
Raffinato esponente di una scienza guidata da remoti obiettivi di conoscenza, era pressoché impermeabile ai meccanismi odierni di funzionamento della ricerca scientifica, guidato dalla sola ricerca della perfezione necessaria a fare “una cosa di una difficoltà mostruosa”. Adalberto Giazotto è uno straordinario esempio di come le idee scientifiche possano essere portate avanti, senza compromessi ma accettando sempre il responso della natura, fino a raggiungere traguardi impensabili.

Adalberto Giazotto ci ha lasciati lo scorso 16 novembre, creando un vuoto incolmabile. Desideriamo inviare alla famiglia il nostro più sentito cordoglio. Possa il suo ricordo rimanere anche quale esempio per i nostri studenti, nello studio e nella vita.

Francesco Fidecaro e i colleghi del Dipartimento di Fisica dell'Università di Pisa

Come percepiamo i suoni? Con oscillazioni che riflettono i ritmi della nostra attenzione. Lo ha dimostrato uno studio pubblicato nella prestigiosa rivista Current Biology, dal titolo "Auditory Sensitivity and Decision Criteria Oscillate at Different Frequencies Separately for the Two Ears", che ha fornito nuove importanti prove sulla natura ciclica della percezione. La ricerca è il risultato di una collaborazione italo-australiana, che ha coinvolto David Alais e Johahn Leung del dipartimento di Psicologia e Scienze Mediche dell’Università di Sydney, David Burr del dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Firenze e Maria Concetta Morrone e Tam Ho del dipartimento di Ricerca Traslazionale dell’Università di Pisa.

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Nella foto David Burr (Università di Firenze) e Tam Ho (Università di Pisa).

Grazie a semplici esperimenti comportamentali, gli autori hanno dimostrato che la sensibilità nel rilevare la presenza di un suono debole non è costante, ma fluttua ritmicamente nel tempo. La ritmicità della sensibilità induce un campionamento sequenziale dei segnali provenienti dalle due orecchie, circa a un decimo di secondo, abbastanza velocemente da agire al di fuori della nostra coscienza.

«Oscillazioni percettive erano state già descritte per il sistema visivo, ma mai prima per il sistema uditivo – spiega David Burr – La difficoltà nel dimostrare la ritmicità percettiva del sistema uditivo è proprio legata alla peculiarità di una frequenza di oscillazione di opposta polarità nelle due orecchie. Tuttavia campionare a tempi diversi i segnali provenienti dalle due orecchie può offrire numerosi vantaggi, non ultimo quello di monitorare con attenzione il segnale monoaurale, ma senza perdere l’informazione importante per la localizzazione del suono».

Ancora più sorprendentemente gli autori hanno dimostrato che la ciclicità riguarda non solo la capacità di rilevamento, ma anche la capacità decisionale di classificare il suono. In questo caso le oscillazioni sono molto più rapide, sottolineando come i processi che sottendono le nostre decisioni e le nostre abilità percettive possano utilizzare circuiti diversi ed essere regolati da ritmi diversi.

«Questi risultati sono importanti sotto molteplici aspetti – aggiunge Maria Concetta Morrone – Per prima cosa mostrano che le oscillazioni sono una caratteristica generale della percezione, non specifica solo per il sistema visivo. In secondo luogo suggeriscono che probabilmente è l’attenzione, incapace di essere distribuita in molteplici domini simultaneamente, che oscilla e campiona sequenzialmente i segnali provenienti dalle due orecchie. Infine lo studio dimostra che la sensibilità sensoriale e la nostra capacità di prendere decisioni oscillano su ritmi specifici e a frequenze diverse».

Quale può essere il vantaggio per il cervello di effettuare un campionamento ritmico delle informazioni sensoriali? Le teorie al riguardo abbondano, ma una delle teorie di maggior successo, abbracciata anche dagli autori di questo studio, ipotizza che il fenomeno rifletta l’azione dell’attenzione. «Quando esaminiamo una scena non tutte le sue parti sono egualmente salienti: alcune ricevono più attenzione di altre e queste vengono analizzate con priorità – spiega Tam Ho – Questa è una strategia molto efficace: permette di concentrare le nostre risorse attentive, di solito molto limitate, su specifici oggetti di interesse, invece di diluirle su tutta la scena. Allo stesso modo le risorse attentive possono essere concentrate in brevi frazioni di tempo: come una luce stroboscopica che lega insieme gli oggetti della scena illuminati simultaneamente».

Ancora più interessante è l’utilizzo di questi ritmi da parte del meccanismo che scandisce il tempo, l’orologio del cervello: «Le oscillazioni neurali potrebbero avere lo scopo di organizzare e codificare nel tempo, attraverso frequenze diverse, le informazioni provenienti dai vari sensi per farci interagire in maniera ottimale con il mondo esterno – concludono gli autori dello studio – Sebbene al momento queste siano solo ipotesi una cosa è chiara: la nostra percezione del mondo è inerentemente ritmica, sebbene non ne siamo assolutamente coscienti».

Appena presentato al Pisa Book Festival è uscito "Balene" (Edizioni ETS, 2017), a cura di Alessandro Tosi, professore di Storia dell'Arte moderna al Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere.

Il volume documenta l'omonima mostra promossa e realizzata dal Museo della Grafica in collaborazione con il Museo di Storia Naturale dell'Ateneo e si compone di tre saggi: "Un ritratto per la balena" di Alessandro Tosi, “Se questo mostro marino sia infausto oppure no: le fortune del capodoglio arenato sulla costa olandese nel 1598" di Florike Egmond e Peter Mason e "Passato e futuro della collezione osteologica di balene e delfini del Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa" di Giovanni Bianucci e Chiara Sorbini. A chiusura del volume c'è quindi una galleria fotografica delle opere di Antonio Possenti realizzate ad hoc per la mostra.

Proponiamo di seguito alcune immagini tratte dal libro.

 

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"Het waerachtich... 2 Iulij 1577", particolare,  tempera, Biblioteca Universitaria di Pisa, Disegni di animali, Ms 514, c. 246. Su concessione del Ministero dei beni e delle attività Culturali e del Turismo.

 

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Balena, G. Bonatti inc. - A. Bognetti e C. Curti colorirono. In Ercole Manaresi, Dizionario pittoreschi della storia naturale e delle manifatture di Milano, Borroni e Scotti, 1839.

 

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Scheletro di capodoglio (a sinistra) affiancato alal ricostruzione del suo antenato (a destra). In primo piano pannello esplicativo in vetro con modelli tridimesionali tattili. Museo di Storia Natuale dell'Università di Pisa.

 

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Una tavola della serie "Balene" concepita da Antonio Possenti nel 2015 per la mostra allestita al Museo della Grafica. Ogni opera è realizzata con tecnica mista su antiche carte nautiche.

Dal riciclo degli scarti della produzione agroalimentare, realizzati innovativi bio rivestimenti edibili per proteggere più a lungo il valore nutritivo della frutta senza alterarne il gusto. La novità arriva dall’Università di Pisa dove il gruppo di ricerca coordinato della professoressa Annamaria Ranieri del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali ha condotto una sperimentazione i cui risultati sono stati recentemente pubblicati su due riviste scientifiche, il “Journal of Food Processing and Preservation” e il “LWT – Food, Science and Technology”.

Docente di Chimica agraria, Annamaria Ranieri ha indirizzato da tempo le sue ricerche sull’utilizzo di biopolimeri naturali ed edibili per mantenere le proprietà nutraceutiche della frutta durante la conservazione.

“Come comunità scientifica ci poniamo il problema della gestione virtuosa e sostenibile degli scarti della produzione agroalimentare – dice la professoressa dell’Ateneo pisano - dall’altra parte l’obiettivo è di dare ai consumatori prodotti che, dalla raccolta alla tavola, riescano a mantenere l’aspetto e le proprietà organolettiche e salutistiche”.

 

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In alto a sinistra Mela Fuji senza rivestimento, a destra rivestita con gelatina di collagene, in basso a sinistra Pomodoro Sir Elyan senza rivestimento, a destra rivestito con chitosano

 

In particolare, uno dei due studi ha riguardato le mele Fuji: per conservarle i ricercatori hanno utilizzato come rivestimento la gelatina, un polimero a base di collagene ottenuto dalla lavorazione di tessuti connettivi e largamente utilizzato per i rivestimenti di capsule nell’industria farmaceutica. Il secondo studio ha riguardato invece il frutto del pomodoro che è stato rivestito con il chitosano, un polimero derivante dalla chitina, una sostanza presente negli esoscheletri dei crostacei e nelle pareti cellulari dei funghi.

I due rivestimenti, che possono essere eliminati lavando i frutti prima di cibarsene hanno rallentato di 3 giorni la maturazione, come evidenziato dal posticipato picco di accumulo di importanti composti nutraceutici, come carotenoidi, acidi fenolici e flavonoidi. Nella mela, poi l’efficacia dell’impiego del rivestimento edibile nel rallentare la maturazione è testimoniato dalla minore concentrazione di alcuni aromi presenti nel frutto maturo, a fronte del mantenimento dei principali composti aromatici che caratterizzano il frutto

“La maggiore conservabilità nel tempo – ha quindi concluso la professoressa Ranieri – potrebbe inoltre contribuire ad evitare lo spreco alimentare in differenti punti della filiera dalla raccolta al consumo”.

Si chiamano Chiara Andreotti, Marta Donno e Filippo Giusti, studiano Ingegneria gestionale all’Università di Pisa e a inizio novembre sono stati invitati all’evento “Strategy Workshop for Engineers”, organizzato da The Boston Consulting Group (BCG) a Parigi, nel castello di Prés d’Écoublay. All’iniziativa erano presenti i migliori 50 studenti delle università europee e del Medio Oriente e i ragazzi di Pisa sono stati l’unico caso di tre studenti selezionati da una stessa università.

Marta Donno è una studentessa del I anno della laurea magistrale in Ingegneria gestionale, mentre Chiara e Andreotti e Filippo Giusti sono neolaureati in Ingegneria gestionale e, quest'ultimo, partecipante al Graduate Programme, DS Smith. L’attività è stata promossa da Community ORG2.0, il laboratorio gestito da Antonella Martini, docente di Organizzazione d’impresa e di Strategic & Competitive Intelligence.

Parigi_tre_studenti.jpgNella foto, da sinistra: Marta Donno, Chiara Andreotti e Filippo Giusti.

Gli studenti invitati al workshop BCG hanno lavorato insieme a un “business case” relativo a un’azienda automotive, con necessità di incrementare la capacità produttiva. Il loro compito era analizzare diverse opzioni strategiche tramite cost-benefit analysis e strutturare una strategia verso il nuovo paradigma tecnologico, l’Industria 4.0. «Siamo stati organizzati in team supervisionati da due consulenti BCG ciascuno – raccontano i ragazzi – ci sono stati forniti i dati e le informazioni da analizzare, assegnandoci una deadline entro la quale dover presentare la miglior strategia, articolata in breve e lungo periodo. Ogni team ha, quindi, esposto il proprio lavoro di fronte ad un panel di consulenti BCG i quali, interpretando l’azienda cliente, proponevano domande sfidanti per valutare quanto il team potesse sostenere la propria strategia. È stato molto entusiasmante lavorare in un contesto fortemente internazionale e mettersi alla prova, suddividendo le responsabilità del team e valorizzando le competenze di ognuno per portare a termine il business case in un tempo ridotto».

Il workshop ha rappresentato per i ragazzi una grande occasione per venire a contatto con una delle migliori aziende di consulenza strategica al mondo e per vedere da vicino come lavora per proporre soluzioni ai propri clienti. «Abbiamo realizzato come la chiave di successo sia il teamwork – concludono i ragazzi – saper collaborare in team è ormai un’abilità essenziale per ogni tipo di ingegnere ed il nostro consiglio è quello di sfruttare al massimo ogni occasione durante la carriera universitaria per essere pronti a farlo anche in ambito lavorativo».

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