Cosa accadrebbe se il nostro cervello smettesse di produrre la serotonina, ovvero la cosiddetta molecola della felicità? La risposta arriva da uno studio tutto italiano pubblicato su “Scientific Reports”, rivista del gruppo "Nature", che ha mostrato l’esistenza di un legame causale fra la riduzione dei livelli di serotonina nel cervello e l’insorgenza del disturbo bipolare.
Lo studio è stato condotto dal professore Massimo Pasqualetti del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, dal professore Alessandro Usiello dell’Università della Campania e del Ceinge di Napoli e dalla dottoressa Chiara Mazzanti del Fondazione Pisana per la Scienza. La ricerca ha inoltre coinvolto competenze di elettrofisiologia e imaging funzionale delle équipe guidate da Alessandro Gozzi dell'Istituto Italiano di Tecnologia di Rovereto e da Raffaella Tonini dell'Istituto Italiano di Tecnologia di Genova.
Risonanza magnetica funzionale che individua le regioni del cervello in cui l’attività neuronale è aumentata
“Il nostro studio ha permesso di associare il deficit di serotonina allo sviluppo di sintomi riconducibili alla sindrome maniacale – spiega il professore Massimo Pasqualetti dell’Università di Pisa – infatti abbiamo dimostrato che la cosiddetta molecola della felicità è fondamentale per attenuare lo stress da ‘insulti’ ambientali provenienti dal mondo esterno, senza di essa il nostro cervello è più attivo e da cui appunto la fase “up” o maniacale che fa da contraltare alla depressione”.
Ricostruzione in 3D dei filamenti neuronali dell’ippocampo in cui si osserva un aumento del numero delle “spine” sinaptiche
I ricercatori hanno condotto lo studio attraverso una sperimentazione su modelli animali e così hanno visto che i topi a cui veniva inibita la produzione di serotonina mostravano comportamenti, come ad esempio la perdita del senso del rischio, assimilabili a quelli delle persone in fase maniacale. Se però agli stessi animali veniva somministrato l’acido valproico, un farmaco comunemente usato per la cura del disturbo bipolare, ecco che i loro tratti comportamentali alterati si normalizzavano. Oltre all’analisi comportamentale, i ricercatori hanno condotto lo studio anche nelle cellule nell’ippocampo dove i geni sono risultati più attivi proprio in corrispondenza della fase maniacale.
“La conoscenza dei complessi meccanismi che governano la fenomenologia del disturbo bipolare – conclude Massimo Pasqualetti – costituisce senz’altro un passo in avanti per l’identificazione di modelli validi per testare terapie farmacologiche sempre più avanzate”.
È in uscita per la Pisa University Press, "Sulla nostra pelle. Geografia culturale del tatuaggio" scritto da Paolo Macchia, professore di Geografia al dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, e dalla dottoressa Maria Elisa Nannizzi, sua allieva che si è laureata con una ricerca sui tatuaggi dei Maori della Nuova Zelanda. Quella che infatti propone il volume è una geografia culturale dei tatuaggi che indaga com'è cambiato il significato di questa pratica nello spazio e nel tempo.
Anticipiamo qui uno stralcio dal volume a firma del professor Macchia.
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La pratica di modificare la pelle con disegni, simboli, incisioni è un qualcosa di molto antico che attraversa molti millenni della storia umana presentandosi praticamente in ogni continente sotto una miriade di forme e tipologie così come allo stesso modo è estremamente eterogenea la gamma delle motivazioni che stanno alla base della pratica: ogni epoca, ogni popolo, ogni cultura che ha adottato il tatuaggio ha dato a esso un significato diverso. Il tatuaggio ha assunto così nel corso della storia il valore di simbolo associato ai riti di passaggio compiuti dall’individuo all’interno della società; ha rappresentato un segno indelebile che marchiava coloro che si macchiavano di comportamenti devianti; è diventato un segno estetico legato alla seduzione e alla sfera erotica della vita; è stato un simbolo di appartenenza a un gruppo; è stato utilizzato per comunicare rango e posizione sociale del singolo; ha assunto valori spirituali che cercavano il contatto con la divinità e la sua benevolenza; o, come accade ai nostri tempi, spesso è esclusivamente un mero ornamento, al pari di un capo di abbigliamento o di un monile.
A ciascuna di queste motivazioni sono stati associati tecniche di realizzazioni particolari nonché simboli e disegni specifici, che avevano un significato ben preciso e comprensibile allo scopo: osservando la miriade di forme, segni e colori che il tatuaggio ha assunto nel corso della sua lunghissima storia, non si più non rimanere stupiti dalla versatilità di questa manifestazione culturale, che sempre è riuscita ad adattarsi alle motivazioni che ogni cultura riponeva in essa.
Per certi versi non è errato affermare che osservare la lunga storia della pratica del disegnare la pelle, nelle sue alterne fortune e nelle sue mille declinazioni, altro non è che un altro modo di leggere la storia culturale dell’Uomo nelle sue manifestazioni e diversità spaziali e temporali: il tatuaggio, prima di tutto, è una forma di comunicazione e fra le più potenti sì che stupisce quanto poco studio abbia dedicato a esso la Geografia Culturale a differenza dell’interesse dimostrato verso altri aspetti quali il modo di abbigliarsi, le forme dell’abitare, le manifestazioni artistiche e letterarie.
Anche l’epoca che viviamo è leggibile attraverso il tatuaggio: le potenti conseguenze della globalizzazione si manifestano in modo evidente anche nei cambiamenti che la pratica del tatuaggio ha mostrato nei decenni a noi più vicini. E il tatuaggio globalizzato, diffuso ormai in modo ubiquitario e spesso standardizzato in ogni angolo del Mondo a prescindere dalle culture locali, diventato un mero elemento consumistico soggetto alle leggi della moda e della comunicazione senza limiti e in tempo reale, molto spesso scelto e realizzato solo per istanze estetiche è sicuramente più che una metafora della nostra epoca contemporanea.
Allo stesso modo, poi, proprio nella diffusione del tatuaggio possiamo ritrovare molti dei possenti mutamenti economici e sociali che hanno investito le società umane nella seconda metà del XX secolo: il tatuaggio come inequivocabile espressione di sé e come rivendicazione della propria unicità all’interno del tessuto sociale, il tatuaggio come ribellione alle regole e base per la contestazione a un ordine sociale sentito come asfissiante e iniquo, il tatuaggio come simbolo dell’emancipazione di quei settori della società tradizionalmente emarginati o tenuti lontani dalla decisionalità, primo fra tutti il mondo femminile.
In questo senso probabilmente sì, la pratica del disegnare la pelle può essere vista come un evidentissimo filo conduttore che da millenni segna l’evoluzione sociale e culturale dei popoli e delle civiltà che si sono succedute sulla Terra nel tempo e nello spazio.
Silvia Briani è il nuovo direttore generale dell’Aoup. La nomina è stata ufficializzata oggi dalla Regione Toscana.
Fiorentina, 57 anni, in Aoup dal marzo del 2017 ha ricoperto il ruolo di direttore sanitario dopo cinque anni nel medesimo incarico all’Aou Santa Maria alle Scotte di Siena (precedentemente è stata direttore sanitario dell’ex Asl 3 di Pistoia e, prima ancora, responsabile del presidio ospedaliero di Pescia). Subentra al commissario straordinario Carlo Rinaldo Tomassini, che ha guidato l’Aoup come direttore generale per tre mandati consecutivi, a partire dal marzo 2009, proseguendo poi nel ruolo di commissario dal marzo dello scorso anno.
Silvia Briani, laureata in Medicina e chirurgia e specializzata in Igiene e sanità pubblica, in questi anni in Aoup si è subito distinta per la capacità di ascolto, l’attenzione alle istanze dei settori sanitari dell’Azienda e di tutti i professionisti, l’approccio pratico alla soluzione dei problemi, la volontà di incontrare le persone e conoscere le varie realtà aziendali. Una caratteristica che le sarà di grande aiuto nel nuovo compito di manager che si appresta a svolgere. Negli anni ha maturato esperienze gestionali nell’organizzazione dei servizi ospedalieri e nell’applicazione di metodologie di snellimento dei processi. Si è occupata di riorganizzazione ospedaliera per intensità di cure, di miglioramento dell’appropriatezza in ambito medico e chirurgico, di percorsi assistenziali, accreditamento istituzionale e miglioramento della qualità ai fini della certificazione. Altro settore della sua attività, negli anni, il rischio clinico con le tecniche di auditing e la promozione di buone pratiche. Grande attenzione poi agli aspetti della soddisfazione dell’utenza, alla valorizzazione del personale e al rafforzamento dei percorsi di salute al femminile (“Bollini rosa”), con una spiccata sensibilità verso le tematiche di genere.
Non appena insediata nel nuovo ruolo, come è per legge nelle prerogative del direttore generale, nominerà i direttori amministrativo e sanitario che la affiancheranno in questo mandato che è appena cominciato.
“Sono felice di accettare questo incarico - ha dichiarato il nuovo direttore generale - e ringrazio tutti della fiducia accordatami. So di raccogliere un testimone importante perché è questa Azienda ad essere importante, specialmente in questa fase che ci vede tutti impegnati nell’imminente avvio del cantiere per il completamento del nuovo ospedale. Saranno quindi anni complessi, in cui la presenza dei lavori in corso accompagnerà le attività assistenziali quotidiane, che non saranno mai interrotte, e il nostro massimo impegno sarà garantire la prosecuzione delle opere con la minima interferenza possibile. Al contempo, tuttavia, è mia intenzione proseguire nel solco già tracciato da chi mi ha preceduto nella creazione dei percorsi assistenziali integrati, rafforzando le attività chirurgiche e mediche ad alta specializzazione che rappresentano la vocazione primaria di questo ospedale, potenziandone le linee di eccellenza con attenzione all’area critica, dell’emergenza-urgenza e alla diagnostica supportata dalla tecnologia sempre più avanzata oggi disponibile. Ci aspettano sfide importanti che ci coinvolgono innanzitutto nella capacità di integrazione con le altre istituzioni sanitarie e della ricerca che sono presenti su tutto il territorio dell’area vasta nord-ovest. Tutti insieme dovremo quindi lavorare affinché questo ospedale – conclude la dottoressa Briani - del quale ho avuto modo di conoscere la forza rappresentata dalle risorse umane, ossia da ogni singolo dipendente che ci lavora, non solo mantenga ma superi gli elevati standard di qualità che l’hanno sempre caratterizzato fino ad oggi, realizzando la sua mission nell’integrazione con la sanità territoriale anche con il contributo dei nuovi professionisti che stanno via via sostituendo una intera generazione di maestri andati in pensione, che hanno lasciato una prestigiosa eredità da portare avanti con orgoglio”.
"Esprimo le mie più vive congratulazioni alla dottoressa Silvia Briani - ha dichiarato il rettore dell’Università di Pisa, Paolo Mancarella - Sono convinto che sia stata un’ottima scelta, avendo avuto modo di conoscerla professionalmente durante il suo mandato da direttore sanitario dell’Aoup. Auspico di poter avviare fin da subito insieme a lei un progetto di sviluppo della nostra Azienda, salvaguardando e valorizzando al meglio eccellenze e competenze presenti, ma al contempo assicurandoci nuovi percorsi strategici di crescita, sia in ambito assistenziale sia nei connessi settori della ricerca di frontiera, in cui l’Università di Pisa è pronta ad affrontare le sfide del futuro. Del resto, è questo il cammino che, insieme al precedente direttore generale poi commissario straordinario, Carlo Rinaldo Tomassini – che ringrazio per il lavoro svolto in questi anni – abbiamo intrapreso fin dall’inizio del mio rettorato".
(fonte: Ufficio stampa AOUP)
Il professor Tommaso Simoncini, ordinario di Ginecologia e Ostetricia del dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell’Ateneo e direttore dell'Unità operativa Ostetricia e Ginecologia 1, è stato nominato tra i membri stranieri dell'Académie Royale de Médecine de Belgique. Il professor Simoncini è presidente del corso di laurea in Ostetricia (abilitante alla Professione Sanitaria di Ostetrica/o) e direttore della Scuola di specializzazione in Ginecologia e Ostetricia.
Dopo un lungo periodo di formazione all'estero, prima (1995) alla New York University e poi (1998 – 2001) alla Harvard Medical School di Boston, il professor Simoncini è rientrato in Italia all’Università di Pisa. Qui ha fondato il Molecular and Cellular Gynecological Endocrinology Laboratory (MCGEL), un centro di eccellenza internazionale per la ricerca bio-molecolare sui meccanismi di azione dei recettori per gli ormoni riproduttivi a livello del sistema cardiovascolare, dei tumori femminili e del sistema nervoso centrale. Il suo gruppo di ricerca ha prodotto studi che hanno condotto a fondamentali avanzamenti nella comprensione degli effetti degli ormoni riproduttivi sulla salute e della donna e sulle malattie legate all’invecchiamento. Ha inoltre condotto studi clinici e traslazionali nel campo dell’endometriosi, sul ruolo del sistema ossido nitrico in gravidanza, su tecniche chirurgiche innovative per la riparazione dei difetti complessi del pavimento pelvico, in campo di chirurgia ginecologica benigna e oncologica, sulla simulazione computer-assistita per la chirurgia mini-invasiva. Ha coordinato per l’Università di Pisa il progetto "Vita Nova", finanziato con quasi due milioni di euro dalla Regione Toscana, per la creazione di una applicazione innovativa per smartphone e tablet dedicata alle donne alle soglie della menopausa.
L'Académie Royale de Médecine de Belgique, fondata nel 1841 da Leopoldo I, accoglie scienziati e medici nominati dal re del Belgio in un consesso di lavoro, riflessione e collaborazione con la finalità dell’avanzamento della medicina e della chirurgia e come organo consultivo per le strategie sanitarie del Paese. L’Accademia accoglie un numero molto limitato di membri stranieri, selezionati con un lungo e severo processo.
La professoressa Maria Luisa Chiofalo, docente di Fisica della materia all’Università di Pisa, è stata invitata a far parte del comitato scientifico del Premio Cosmos destinato alla migliore opera di divulgazione scientifica nei settori della Fisica, dell’Astronomia e della Matematica. Insieme a lei ci sono altri 11 scienziati italiani di fama internazionale Gianfranco Bertone, Amedeo Balbi, Roberto Battiston, Andrea Ferrara (della Scuola Normale Superiore), Piergiorgio Odifreddi, Carlo Rovelli, Sandra Savaglio, Ginevra Trinchieri, Pierluigi Veltri, Lucia Votano, Paolo Zellini. Presidente e ideatore del premio è il cosmologo Gianfranco Bertone.
Il Premio Cosmos è organizzato in sinergia con la Società Astronomica Italiana, la Città Metropolitana di Reggio Calabria – Planetario Pythagoras, e la Fondazione Bracco, con l’obiettivo di promuovere la cultura scientifica in Italia e in particolare al Sud. Il Premio sarà assegnato direttamente dal comitato scientifico a un’opera di divulgazione scientifica selezionata tra quelle inviate dalle case editrici alla segreteria del premio.
Per avere un effetto concreto sul territorio e coinvolgere i giovani nell’iniziativa, un secondo premio verrà assegnato dagli studenti delle scuole superiori che parteciperanno all’iniziativa. Ogni classe identificherà un libro preferito tra i 5 selezionati dal comitato organizzatore. Un rappresentante di ogni classe parteciperà poi a un’assemblea finale, che culminerà con la selezione dell’autore vincitore del premio degli studenti. Le recensioni degli studenti saranno pubblicate da Repubblica.it. Gli istituti interessati a partecipare al progetto possono già proporre la loro candidatura collegandosi al sito web https://premiocosmos.org/ e compilando il modulo di adesione.
Latte di asina e olio extra vergine di oliva, dall’unione di queste due eccellenze toscane nasce un alimento gustoso e adatto per la nutrizione dei bambini allergici alle proteine del latte vaccino. L’idea di mettere insieme questi due ingredienti è stata studiata nell’ambito di “L.A.B.A. Pro.V.”, un progetto della Regione Toscana sulla Nutraceutica di cui la professoressa Mina Martini, che studia da anni le proprietà del latte di asina, era responsabile per l’Università di Pisa e al quale hanno partecipato l’Azienda Ospedaliera Universitaria A. Meyer come coordinatore e l’Istituto Zooprofilattico delle Regioni Lazio e Toscana. Un “mix della salute” tutto toscano quindi composto da olio evo e da latte proveniente dal Complesso agricolo forestale regionale “Bandite di Scarlino”, dove il latte d’asina Amiatina viene prodotto, pastorizzato e confezionato con la supervisione scientifica della professoressa Martini e dei suoi collaboratori.
“Per i bambini il latte di asina è un buon sostituto in caso di allergia alle proteine del latte vaccino (APLV) – spiega Mina Martini del dipartimento di Scienze Veterinarie e del Centro di ricerca interdiparmentale Nutrafood – e questo sia per le sue proprietà nutritive sia perché risulta gradevole al gusto, diversamente da alcuni sostitutivi”.
Latte prodotto, pastorizzato e confezionato presso l’allevamento di asine da latte di Ponte alle Catene, in località Puntone di Scarlino (provincia di Grosseto), che fa parte del Complesso Agricolo Forestale Regionale Bandite di Scarlino
“Visto poi il suo un limitato contenuto di grassi - aggiunge Martini - nel caso dei bambini in fase di svezzamento, l’idea è stata di integrarlo con olio evo il che ha dato buoni risultati sia in termini di tollerabilità che di gradimento e di accrescimento”.
Come infatti ha evidenziato il progetto “L.A.B.A.Pro.V.”, i cui risultati scientifici sono in corso di pubblicazione, e che ha riguardato 81 bambini, il latte di asina è stato tollerato dal 98,7% . In particolare, 22 bambini hanno seguito la dieta a base di latte d’asina per 6 mesi mostrando un accrescimento nella norma ed i genitori hanno riferito un ottimo gradimento ed un generale miglioramento della qualità della vita dei loro figli.
Da un punto di vista nutritivo, sono infatti molti i vantaggi di questo alimento essendo il latte più simile a quello umano. L’alto contenuto di lattosio, oltre a renderlo più appetibile, favorisce lo sviluppo della flora intestinale, mentre grazie al limitato contenuto di caseina e alla dimensione ridotta dei globuli di grasso risulta particolarmente digeribile. L’apporto di calcio e di vitamina D sono favorevoli allo sviluppo scheletrico e infine, nonostante sia povero di lipidi, fornisce comunque un buon contributo di Omega 3.
Asine allevate nell'azienda tutte di razza autoctona Amiatina
“Le potenzialità del latte di asina sono molte – conclude Mina Martini – oltre ad essere un buon sostituto del latte vaccino nel caso di bambini affetti da APLV, le sue proprietà nutraceutiche potrebbero renderlo un alimento adatto anche per gli anziani e non ultimo per le persone che vogliono perdere peso o con problemi di dislipidemie visto il ridotto contenuto calorico, il basso contenuto lipidico ed il limitato apporto di acidi grassi saturi”.
È nato il Centro interdipartimentale di Farmacologia marina (MARinePHARMA Center), su proposta del dipartimento di Farmacia e del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. L’interesse principale del centro è la ricerca, in organismi marini, di nuove molecole utili in campo terapeutico, ma anche nutraceutico e cosmetico. Al centro, diretto dalla professoressa Paola Nieri, afferiscono per ora circa 55 docenti provenienti dai due dipartimenti, ma è aperto a ricercatori e studiosi anche di altre aree.
La biodiversità marina è molto più grande di quella terrestre e le condizioni di vita degli organismi acquatici molto più diversificate. Tutto questo si concretizza di un’elevata chemo-diversità, con grandi potenzialità per la scoperta di nuove molecole naturali bioattive, da cui selezionare composti con potenzialità di utilizzo nel campo della salute umana ma anche animale.
L’Italia, con il suo ampio patrimonio costiero offre, per questo tipo di ricerca, spunti importanti, che possono partire addirittura da problematiche ecologiche, come la presenza di specie invasive nelle acque del Mediterraneo.
Le aziende che operano nel settore della salute possono ricevere un forte impulso dalla realizzazione di studi mirati all’estrazione e al riconoscimento di biomolecole presenti in organismi marini. Questa strategia può rappresentare un buon investimento anche per l’Università, con la possibilità di creare una sinergia pubblico-privato con aziende presenti sul territorio nazionale e la realizzazione di nuove realtà imprenditoriali “bio-based”.
Dodici studenti del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa si stanno preparando a una lezione fuori sede molto particolare: nella seconda metà di gennaio trascorreranno dieci giorni nel deserto peruviano della regione di Ica, non lontano dalle famose linee di Nazca, uno dei giacimenti paleontologici più importanti a livello mondiale. Undici studenti, Alice Belluzzo, Laura Bronzo, Guglielmo Di Stefano, Alessandro Favaroni, Raffaele Gazzola, Giacomo Gazzurra, Pietro Giacomini, Amedeo Martella, Marco Merella, Leonardo Nicodemi e Lorenzo Porta, frequentano il corso magistrale in “Scienze e tecnologie geologiche”, mentre Sara Citron è iscritta a quello in “Conservazione ed evoluzione”.
Tutti sono stati selezionati, fra le oltre quaranta domande presentate, sulla base di una serie di parametri che tenevano conto del percorso formativo sostenuto, delle capacità dimostrate ma anche della motivazione necessaria ad affrontare condizioni così differenti dalla vita studentesca. Per tutta la durata dell’escursione, infatti, i ragazzi dormiranno in tenda e condivideranno con i loro accompagnatori tutte le limitazioni della vita nel deserto.
Si prenderanno cura degli studenti, guidandoli passo passo nella loro avventura, Giovanni Bianucci, Alberto Collareta, Anna Gioncada, Giancarlo Molli e Giovanni Sarti, docenti del dipartimento di Scienze della Terra, affiancati da Giulia Bosio dell’Università di Milano Bicocca ed Elena Ghezzo dell’Università di Venezia, oltre che da Mario Urbina e altri paleontologi peruviani.
Questo team d’eccezione raccoglie molti dei membri di un gruppo di ricerca che da oltre dieci anni svolge un importante lavoro multidisciplinare in quest’area ubicata tra la costa meridionale del Perù e il margine occidentale della Catena Andina. Fra le loro scoperte molti reperti di eccezionale importanza come il Leviatano, il più grande predatore tetrapode marino del passato (la cui ricostruzione è esposta nel Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa a Calci), il Mistacodon, la più antica balena conosciuta, e molti altri fossili straordinari che fanno di questo luogo uno dei giacimenti paleontologici più importanti a livello mondiale.
Grazie a diversi progetti internazionali (National Geographic) e nazionali (PRIN) e a due progetti finanziati dall’Università di Pisa (PRA), tutti coordinati dai ricercatori del dipartimento di Scienze della Terra, questo giacimento è diventato un vero e proprio laboratorio di studio multidisciplinare in svariati ambiti delle geoscienze. Le ricerche svolte hanno, inoltre, contribuito a fare del deserto di Ica un crocevia di giovani studenti e ricercatori: laureandi, dottorandi e borsisti vi fanno esperienza di campo e forniscono un contributo scientifico importante alle ricerche in corso.
L’iniziativa, coordinata da Giovanni Bianucci, è stata organizzata dal dipartimento di Scienze della Terra e interamente finanziata dall’Università di Pisa nell’ambito dei progetti speciali per la didattica. Oltre a quelli dell’Ateneo pisano, coinvolgerà anche studenti e docenti peruviani dell’Universidad Nacional Mayor de San Marcos (Lima)
Il professor Dino Pedreschi, ordinario di Informatica dell'Università di Pisa, è stato nominato nel gruppo di lavoro del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca incaricato di definire gli indirizzi di carattere generale e nazionale sul tema dell’intelligenza artificiale, che è di assoluta rilevanza per lo sviluppo culturale e industriale dell'Italia. Insieme ad altri quattro esperti, il professor Pedreschi sarà chiamato in particolare a monitorare e coordinare le risorse a disposizione nel nostro Paese, nell'ottica della possibile creazione di un centro di ricerca e laboratorio sull'intelligenza artificiale che coinvolga i paesi interessati in ambito Europeo.
Il professor Dino Pedreschi, nato a Castelnuovo Garfagnana nel 1958, svolge da oltre 30 anni attività di ricerca in Informatica, con particolare riferimento al settore oggi indicato come Data Science, o scienza dei dati, di cui è un pioniere a livello internazionale. Il focus delle sue ricerche è comprendere la società attraverso la lente dei “big data”, attraverso il “social data mining” e la “big data analytics”: le città sostenibili e la mobilità umana, la complessità delle reti sociali ed economiche, l’etica digitale e la difesa della privacy e dei diritti, forme di intelligenza artificiale che pongano la persona e i valori umani al centro. Dirige con Fosca Giannotti, del CNR, il laboratorio KDD LAB, Knowledge Discovery and Data Mining Lab, congiunto tra Università di Pisa e ISTI-CNR. Autore di oltre 250 pubblicazioni, ha coordinato svariati progetti di ricerca nazionali e internazionali, fra cui otto progetti europei nel programma di ricerca di base Future Emerging Technology della Commissione Europea. È stato “visiting scientist” alla Northeastern University di Boston, all’Università del Texas di Austin, al CWI di Amsterdam e a UCLA. Dal 2016 è il coordinatore del primo dottorato italiano di Data Science, congiunto fra Scuola Normale Superiore, Università di Pisa, CNR, Scuola Sant’Anna e Scuola IMT Lucca.
“Intelligenza Artificiale è uguale a Big Data più Machine Learning - dice il professor Pedreschi - La nuova primavera della IA, dopo un lungo inverno seguito alla disillusione degli anni 80, è il regalo della scienza dei dati, dell’apprendimento automatico da masse enormi di esempi che riesce finalmente ad affrontare con successo la comprensione e la traduzione dei testi, il riconoscimento delle immagini, la guida autonoma e molto altro. L’effetto combinato e disposto di tanti esempi da cui imparare, modelli sofisticati di apprendimento e capacità di calcolo ad altissime prestazioni. Grandi opportunità di progresso, ma anche nuove criticità e preoccupazione, ripercussioni sulla sfera dei diritti, del lavoro, della democrazia. L’Europa e con essa il nostro paese hanno la possibilità e la responsabilità di sviluppare una IA ‘umana', che si ponga l’obiettivo di espandere l’esperienza umana, non di rimpiazzarla. Un esempio di IA umana è un esoscheletro che permette a una persona paralizzata di camminare. Abbiamo bisogno di sviluppare forme di IA analoghe a livello cognitivo, in grado di portarci a un livello oggi irraggiungibile di conoscenza e consapevolezza e di aiutarci ad affrontare le sfide individuali e collettive che abbiamo davanti, aumentando il benessere di tutti.”
E' in uscita con la Pisa University Press il volume Narrare la malattia per costruire la salute curato da Rita Biancheri, professoressa del dipartimento di Scienze Politiche dell'Ateneo, e da Stefano Taddei, direttore della Unità Operativa di Medicina 1 dell'Aoup.
Pubblichiamo di seguito una breve presentazione a firma della professoressa Biancheri.
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A quarant’anni dalla nascita del Sistema Sanitario nazionale con la legge 833 del 1978 permangono diseguaglianze di salute, difficoltà di accesso alle cure, consistenti differenze regionali che in una prospettiva ormai storica consentono di comprendere, con maggiore efficacia, molte delle cause che hanno condizionato negativamente la qualità dei servizi offerti.
Gran parte della letteratura pubblicata nell’ultimo ventennio fa riferimento all’importanza dell’attivazione del paziente, alla prospettiva relazionale oltre a valorizzare la funzione di voice della partecipazione associazionistica. Dall’altra parte altri studiosi hanno messo in guardia sull’ambiguità dei concetti utilizzati con il rischio di descrivere “un involucro vuoto”, di teorizzare principi difficilmente applicabili. Dinamiche complesse che costringono, anzi rendono imprescindibile, un ripensamento sulle pratiche, sulle modalità di presa in carico dei malati cronici, sulle risposte per il fine vita, su come aiutare chi soffre.
Cambiano i bisogni dei pazienti, si sono allungate le speranze di vita ma sono troppi gli anni passati in cattiva salute, soprattutto per le donne; cresce l’esigenza di informazione ma spesso si ricorre a notizie mediatiche mentre la comunicazione esperta, la prevenzione subisce incrinature e derive pericolose. In questa cornice, brevemente delineata, il volume intende trattare, attraverso vari approcci, un tema che nel nostro paese rischia di essere considerato irrilevante o non applicabile, proprio perché richiede un cambiamento di paradigma, un svolta a nostro avviso necessaria.
La contrapposizione tra il crescente bisogno di tecnologie e l’umanizzazione delle cure fa parte di un filo rosso che corre all’interno di un confronto più che trentennale; gli Autori e le Autrici di questo libro condividono l’assunto che proprio per affrontare la minaccia di una perdita di creatività, di capacità di riconoscimento dell’altro, di fronte ai domini dell’ipertecnologizzazione, della medicalizzazione della vita e del consumerismo occorrano nuovi strumenti derivanti da un cambiamento epistemologico, da un’integrazione dei saperi, attraverso il racconto delle esperienze vissute. Una possibile risposta alle sfide in grado di assumere, al tempo stesso, la complessità e l’unicità della condizione umana.
Rita Biancheri