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Il professor Tommaso Simoncini, ordinario di Ginecologia e Ostetricia del dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell’Ateneo e direttore dell'Unità operativa Ostetricia e Ginecologia 1, è stato nominato tra i membri stranieri dell'Académie Royale de Médecine de Belgique. Il professor Simoncini è presidente del corso di laurea in Ostetricia (abilitante alla Professione Sanitaria di Ostetrica/o) e direttore della Scuola di specializzazione in Ginecologia e Ostetricia.

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Dopo un lungo periodo di formazione all'estero, prima (1995) alla New York University e poi (1998 – 2001) alla Harvard Medical School di Boston, il professor Simoncini è rientrato in Italia all’Università di Pisa. Qui ha fondato il Molecular and Cellular Gynecological Endocrinology Laboratory (MCGEL), un centro di eccellenza internazionale per la ricerca bio-molecolare sui meccanismi di azione dei recettori per gli ormoni riproduttivi a livello del sistema cardiovascolare, dei tumori femminili e del sistema nervoso centrale. Il suo gruppo di ricerca ha prodotto studi che hanno condotto a fondamentali avanzamenti nella comprensione degli effetti degli ormoni riproduttivi sulla salute e della donna e sulle malattie legate all’invecchiamento. Ha inoltre condotto studi clinici e traslazionali nel campo dell’endometriosi, sul ruolo del sistema ossido nitrico in gravidanza, su tecniche chirurgiche innovative per la riparazione dei difetti complessi del pavimento pelvico, in campo di chirurgia ginecologica benigna e oncologica, sulla simulazione computer-assistita per la chirurgia mini-invasiva. Ha coordinato per l’Università di Pisa il progetto "Vita Nova", finanziato con quasi due milioni di euro dalla Regione Toscana, per la creazione di una applicazione innovativa per smartphone e tablet dedicata alle donne alle soglie della menopausa.

L'Académie Royale de Médecine de Belgique, fondata nel 1841 da Leopoldo I, accoglie scienziati e medici nominati dal re del Belgio in un consesso di lavoro, riflessione e collaborazione con la finalità dell’avanzamento della medicina e della chirurgia e come organo consultivo per le strategie sanitarie del Paese. L’Accademia accoglie un numero molto limitato di membri stranieri, selezionati con un lungo e severo processo.

Latte di asina e olio extra vergine di oliva, dall’unione di queste due eccellenze toscane nasce un alimento gustoso e adatto per la nutrizione dei bambini allergici alle proteine del latte vaccino. L’idea di mettere insieme questi due ingredienti è stata studiata nell’ambito di “L.A.B.A. Pro.V.”, un progetto della Regione Toscana sulla Nutraceutica di cui la professoressa Mina Martini, che studia da anni le proprietà del latte di asina, era responsabile per l’Università di Pisa e al quale hanno partecipato l’Azienda Ospedaliera Universitaria A. Meyer come coordinatore e l’Istituto Zooprofilattico delle Regioni Lazio e Toscana. Un “mix della salute” tutto toscano quindi composto da olio evo e da latte proveniente dal Complesso agricolo forestale regionale “Bandite di Scarlino”, dove il latte d’asina Amiatina viene prodotto, pastorizzato e confezionato con la supervisione scientifica della professoressa Martini e dei suoi collaboratori.

“Per i bambini il latte di asina è un buon sostituto in caso di allergia alle proteine del latte vaccino (APLV) – spiega Mina Martini del dipartimento di Scienze Veterinarie e del Centro di ricerca interdiparmentale Nutrafood – e questo sia per le sue proprietà nutritive sia perché risulta gradevole al gusto, diversamente da alcuni sostitutivi”.

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Latte prodotto, pastorizzato e confezionato presso l’allevamento di asine da latte di Ponte alle Catene, in località Puntone di Scarlino (provincia di Grosseto), che fa parte del Complesso Agricolo Forestale Regionale Bandite di Scarlino


“Visto poi il suo un limitato contenuto di grassi - aggiunge Martini - nel caso dei bambini in fase di svezzamento, l’idea è stata di integrarlo con olio evo il che ha dato buoni risultati sia in termini di tollerabilità che di gradimento e di accrescimento”.

Come infatti ha evidenziato il progetto “L.A.B.A.Pro.V.”, i cui risultati scientifici sono in corso di pubblicazione, e che ha riguardato 81 bambini, il latte di asina è stato tollerato dal 98,7% . In particolare, 22 bambini hanno seguito la dieta a base di latte d’asina per 6 mesi mostrando un accrescimento nella norma ed i genitori hanno riferito un ottimo gradimento ed un generale miglioramento della qualità della vita dei loro figli.
Da un punto di vista nutritivo, sono infatti molti i vantaggi di questo alimento essendo il latte più simile a quello umano. L’alto contenuto di lattosio, oltre a renderlo più appetibile, favorisce lo sviluppo della flora intestinale, mentre grazie al limitato contenuto di caseina e alla dimensione ridotta dei globuli di grasso risulta particolarmente digeribile. L’apporto di calcio e di vitamina D sono favorevoli allo sviluppo scheletrico e infine, nonostante sia povero di lipidi, fornisce comunque un buon contributo di Omega 3.

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Asine allevate nell'azienda tutte di razza autoctona Amiatina


“Le potenzialità del latte di asina sono molte – conclude Mina Martini – oltre ad essere un buon sostituto del latte vaccino nel caso di bambini affetti da APLV, le sue proprietà nutraceutiche potrebbero renderlo un alimento adatto anche per gli anziani e non ultimo per le persone che vogliono perdere peso o con problemi di dislipidemie visto il ridotto contenuto calorico, il basso contenuto lipidico ed il limitato apporto di acidi grassi saturi”.

 

 

logo marine center copyÈ nato il Centro interdipartimentale di Farmacologia marina (MARinePHARMA Center), su proposta del dipartimento di Farmacia e del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. L’interesse principale del centro è la ricerca, in organismi marini, di nuove molecole utili in campo terapeutico, ma anche nutraceutico e cosmetico. Al centro, diretto dalla professoressa Paola Nieri, afferiscono per ora circa 55 docenti provenienti dai due dipartimenti, ma è aperto a ricercatori e studiosi anche di altre aree.

La biodiversità marina è molto più grande di quella terrestre e le condizioni di vita degli organismi acquatici molto più diversificate. Tutto questo si concretizza di un’elevata chemo-diversità, con grandi potenzialità per la scoperta di nuove molecole naturali bioattive, da cui selezionare composti con potenzialità di utilizzo nel campo della salute umana ma anche animale.

L’Italia, con il suo ampio patrimonio costiero offre, per questo tipo di ricerca, spunti importanti, che possono partire addirittura da problematiche ecologiche, come la presenza di specie invasive nelle acque del Mediterraneo.

Le aziende che operano nel settore della salute possono ricevere un forte impulso dalla realizzazione di studi mirati all’estrazione e al riconoscimento di biomolecole presenti in organismi marini. Questa strategia può rappresentare un buon investimento anche per l’Università, con la possibilità di creare una sinergia pubblico-privato con aziende presenti sul territorio nazionale e la realizzazione di nuove realtà imprenditoriali “bio-based”.

narrare malattia coverE' in uscita con la Pisa University Press il volume Narrare la malattia per costruire la salute curato da Rita Biancheri, professoressa del dipartimento di Scienze Politiche dell'Ateneo, e da Stefano Taddei, direttore della Unità Operativa di Medicina 1 dell'Aoup.

Pubblichiamo di seguito una breve presentazione a firma della professoressa Biancheri.

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A quarant’anni dalla nascita del Sistema Sanitario nazionale con la legge 833 del 1978 permangono diseguaglianze di salute, difficoltà di accesso alle cure, consistenti differenze regionali che in una prospettiva ormai storica consentono di comprendere, con maggiore efficacia, molte delle cause che hanno condizionato negativamente la qualità dei servizi offerti.

Gran parte della letteratura pubblicata nell’ultimo ventennio fa riferimento all’importanza dell’attivazione del paziente, alla prospettiva relazionale oltre a valorizzare la funzione di voice della partecipazione associazionistica. Dall’altra parte altri studiosi hanno messo in guardia sull’ambiguità dei concetti utilizzati con il rischio di descrivere “un involucro vuoto”, di teorizzare principi difficilmente applicabili. Dinamiche complesse che costringono, anzi rendono imprescindibile, un ripensamento sulle pratiche, sulle modalità di presa in carico dei malati cronici, sulle risposte per il fine vita, su come aiutare chi soffre.

Cambiano i bisogni dei pazienti, si sono allungate le speranze di vita ma sono troppi gli anni passati in cattiva salute, soprattutto per le donne; cresce l’esigenza di informazione ma spesso si ricorre a notizie mediatiche mentre la comunicazione esperta, la prevenzione subisce incrinature e derive pericolose. In questa cornice, brevemente delineata, il volume intende trattare, attraverso vari approcci, un tema che nel nostro paese rischia di essere considerato irrilevante o non applicabile, proprio perché richiede un cambiamento di paradigma, un svolta a nostro avviso necessaria.

La contrapposizione tra il crescente bisogno di tecnologie e l’umanizzazione delle cure fa parte di un filo rosso che corre all’interno di un confronto più che trentennale; gli Autori e le Autrici di questo libro condividono l’assunto che proprio per affrontare la minaccia di una perdita di creatività, di capacità di riconoscimento dell’altro, di fronte ai domini dell’ipertecnologizzazione, della medicalizzazione della vita e del consumerismo occorrano nuovi strumenti derivanti da un cambiamento epistemologico, da un’integrazione dei saperi, attraverso il racconto delle esperienze vissute. Una possibile risposta alle sfide in grado di assumere, al tempo stesso, la complessità e l’unicità della condizione umana.

Rita Biancheri

 

Può essere un cavaliere particolarmente esigente o la separazione dal proprio gruppo sociale o ancora l’apparizione di qualcosa di nuovo nell’ambiente. Succede così che anche i cavalli (nel loro piccolo) si stressano e che per calmarsi (al pari di noi umani) mettono in atto particolari comportamenti.

Si potrebbe sintetizzare in questo modo quanto emerge da un recentissimo studio pubblicato sulla rivista “Scientific Reports” e realizzato da una equipe di veterinari ed etologi composto da Paolo Baragli, Claudio Sighieri (Dipartimento di Scienze Veterinarie) ed Elisabetta Palagi (Dipartimento di Biologia) dell’Università di Pisa e da Chiara Scopa del Centro di Referenza Nazionale per gli Interventi Assistiti con gli Animali (Direttore Dott. Luca Farina), Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, Legnaro, Padova.

 

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Cavalli durante i test


“Per la prima volta abbiamo definito e standardizzato una condizione di stress nei cavalli secondo modalità e tempistiche precise, che ci ha permesso di individuare quei comportamenti che i cavalli usano per calmarsi”, sottolinea Paolo Baragli del dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Ateneo pisano.

E’ emerso così che lo “snore”, cioè un suono legato alla respirazione simile ad una profonda inalazione, è un comportamento messo in atto per controbilanciare lo stress così come, ma con una tempistiche diverse, il “vacuum chewing”, cioè la masticazione a vuoto, senza nulla in bocca.

“I comportamenti calmanti messi in atto dai cavalli sono una forma di resilienza, cioè una strategia che consente di affrontare meglio certe situazioni caratterizzate da una importante risposta emotiva negativa – spiega Chiara Scopa dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie – sono azioni inconsapevoli che hanno un effetto sul sistema nervoso autonomo, che permette al soggetto di bilanciare lo stress e provare a ristabilire l’equilibrio interno del proprio organismo, lo facciamo anche noi umani in alcune situazioni, ad esempio dondolando le gambe, gesticolando, strusciando le mani o arricciandoci i capelli”.

I ricercatori hanno condotto la sperimentazione su 33 cavalli di razza, sesso ed età diversi in quattro differenti scuderie italiane. In pratica, lo stress test consisteva nel gonfiare con un meccanismo a distanza, improvvisamente e in pochi secondi, un palloncino all’interno dei box dei cavalli lasciandolo gonfio per 5 minuti. Il comportamento degli animali è stato quindi video-registrato e i dati fisiologici (frequenza e variabilità cardiaca) sono stati raccolti da un monitor cardiaco fissato su una cintura elastica applicata al torace. Per validare i risultati le stesse rilevazioni sono state eseguite anche su un gruppo controllo e in questo caso i cavalli venivano lasciati soli nei box senza che ci fosse alcun palloncino. I ricercatori hanno quindi rilevato che lo snore e il vacuum chewing erano molto più frequenti come reazione al palloncino, infatti le variabili fisiologiche indicavano una maggiore attività del sistema “calmante” dell’organismo (componente vagale del sistema nervoso autonomo). La differenza riscontrata stava nella tempistica di comparsa, lo “snore” era prevalente nel primo minuto, mentre il vacuum chewing era distribuito in tutti i 5 minuti del test. Ciò indicherebbe che lo “snore” serve a contrastare il primo impatto dell’evento stressante, mentre il vacuum chewing interviene con un’azione più lenta e prolungata.

Il cavallo è tra i più diffusi animali domestici e da compagnia, oltre ad essere utilizzato in attività ludico-ricreative e nelle terapie assistite - conclude Paolo Baragli – e, nonostante l’attenzione sempre crescente, è ancora difficile definire e riconoscere quali siano i segnali che possono aiutarci a capire il loro reale stato interiore. Il comportamento da solo può non essere sufficiente e questo studio potrebbe quindi fare da apripista alla realizzazione di linee guida comportamentali, validate dalla reale attività del sistema nervoso autonomo, utili a tutti coloro che hanno a che fare con i cavalli e perciò anche a beneficio degli umani”.

Sento il dovere di intervenire a commento della polemica che si è sviluppata in questi giorni sulla questione del centro trapianti di Pisa, a seguito delle dichiarazioni del dott. Daniele Pezzati.

Per prima cosa, intendo esprimere la mia profonda gratitudine a tutto lo staff pisano, di cui il dott. Pezzati è parte, che da anni fa del nostro centro un’eccellenza assoluta a livello nazionale e non. Basti ricordare che nel maggio scorso abbiamo festeggiato il traguardo, superato a fine 2017, dei 2000 trapianti di fegato eseguiti; a Pisa, il 3 luglio 2010, è stato effettuato il primo trapianto robotico di rene in Europa (Aa. Vv., Robotic renal transplantation: first European case. Transpl Int. 2011 Feb; 24(2):213-8) e sempre a Pisa, solo pochi mesi dopo, il 27 settembre 2010, è avvenuto il primo trapianto robotico al mondo di pancreas (Aa. Vv., Laparoscopic robot-assisted pancreas transplantation: first world experience. Transplantation. 2012 Jan 27; 93(2):201-6).

Smantellare o indebolire una simile realtà sarebbe scellerato e di questo è ben consapevole il governo regionale, come più volte ribadito dal Presidente Rossi e dall’assessore Saccardi. Ho avuto rassicurazioni in tal senso dal Presidente Rossi in persona, nel corso di un colloquio privato svoltosi solo due mesi fa, dove abbiamo ribadito la comune volontà di definire, insieme al nuovo Direttore Generale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana di imminente nomina, un progetto di sviluppo delle nostre eccellenze, alla quale il governo regionale darà il suo contributo in termini di risorse. Tra queste eccellenze vi è sicuramente il centro trapianti pisano, che dovrà rimanere centro di riferimento a livello toscano in modo da poter crescere e svilupparsi, anche creando percorsi virtuosi di collaborazione con professionisti presenti altrove in Regione.

Io stesso Rettore mi farò garante affinché ciò accada, con Pisa baricentro di una realtà rappresentativa di un primato indiscusso per la nostra città e per la nostra Toscana.

Si è conclusa in questi giorni la missione in India del professor Bruno Neri, docente del dipartimento di Ingegneria dell'Informazione dell'Università di Pisa, presso l’insediamento Tibetano di Bylakuppe. Il professor Neri è stato ospite dell’Università monastica di Sera Jey, nell’ambito di una convenzione di studio e ricerca con l’Ateneo pisano. L’attività, che ha come oggetto l’analisi degli effetti degli stati non ordinari di coscienza indotti mediante pratiche meditative sull’attività cerebrale, è coordinata dal professor Angelo Gemignani del dipartimento di Patologia chirurgica, medica, molecolare e dell’area critica. Essa si inquadra in un più ampio progetto multiculturale e multidisciplinare che coinvolge ricercatori dell’Ateneo pisano e studiosi delle più antiche e prestigiose università monastiche tibetane e ha avuto il suo lancio ufficiale con il Simposio “The Mindscience of Reality”, svoltosi a Pisa nel settembre 2017 con il Dalai Lama come ospite d’onore.

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La missione scientifica a Sera Jey aveva come obiettivo la raccolta di dati biomedici (elettroencefalogramma ad alta densità, attività cardiaca e respiratoria) in soggetti con diversi livelli di esperienza impegnati nella pratica meditativa. I volontari erano tutti monaci della Scuola Ghelup (la stessa cui appartiene il Dalai Lama), alcuni ancora impegnati nel percorso di studi, altri, quelli con maggiore esperienza, in ritiro da diversi anni all’interno di un’apposita area riservata del Monastero di Sera Jey. Questi ultimi praticano la meditazione per 8 ore al giorno per tutta la durata del ritiro che può essere anche superiore ai 10 anni. Si è trattato dunque di un’opportunità non facilmente ripetibile al di fuori di un contesto come quello di Sera Jey, che consentirà di incrociare i dati provenienti dall’esperienza in prima persona dei meditatori con quelli oggettivi rilevati strumentalmente e di confrontare l’analisi dei ricercatori dell’Università di Pisa con la visione degli studiosi dell’Università di Sera Jey (approccio neuro-fenomenologico).

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L’Università Monastica di Sera Jey, fondata nel 1419 è sempre stato uno dei principali centri di studio e ricerca della tradizione mahaiana, una delle grandi scuole della filosofia buddista, che affonda le sue radici nell’insegnamento di uno dei maggiori maestri ed eruditi del pensiero Indiano, Nagarjuna, il quale ha insegnato nel secondo secolo d.C. presso l’Università di Nalanda. Quando nel 1235, dopo oltre mille anni di storia, l’Università di Nalanda fu distrutta a seguito dell’invasione mussulmana araba dell’India, la maggior parte dei testi erano stati, nel frattempo, tradotti e portati in Tibet dove, protetta dalle formidabili barriere naturali, la già millenaria tradizione dei maestri indiani ha potuto sopravvivere e arricchirsi fino ai nostri giorni. L’Università Monastica di Sera Jey rilascia il titolo di Geshe equivalente a quello di dottore magistrale in Filosofia buddista. Il percorso base di studi dura 21 anni. I Geshe più dotati possono poi accedere a un ulteriore percorso della durata di 6 anni e conseguire il titolo di Geshe Larampa equivalente a un dottorato di ricerca. Nell’annesso monastero vivono 5000 monaci, 1500 dei quali impegnati negli studi per diventare Geshe.

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La prossima tappa sarà il Collegio Tantrico di Gyumed, a poche decine di chilometri da Sera Jey, con il quale il professor Neri ha già preso contatti nel corso della missione appena conclusasi. Lì studiano e, in alcuni casi trascorrono lunghi periodi di ritiro, gli Dzogrinpa, monaci Tibetani che praticano i diversi livelli del Tantra. Essi si tramandano da millenni, da maestro a discepolo, le tecniche segrete di meditazione che consentono loro, tra l’altro, di esercitare il controllo su alcuni parametri fisiologici come la temperatura corporea e la frequenza cardiaca. L’obiettivo centrale della loro pratica è quello di simulare, per imparare a controllarlo, il processo di “riassorbimento” della coscienza che si verifica al momento della morte quando questa si “ritira” dal corpo.

Il 29 novembre scorso è scomparso il professor Claudio Pellegrino, che è stato a lungo direttore dell’Istituto di Patologia generale e preside della facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Pisa.

pellegrino claudio1Il professor Claudio Pellegrino era nato a Sondrio il 4 luglio 1920. Si era laureato in Medicina e chirurgia sotto la guida dei professori Luigi Michelazzi ed Enrico Puccinelli e aveva iniziato la sua carriera accademica nel 1943 come assistente supplente di Patologia generale all’Università di Siena. Nel 1948 si era trasferito all’Università di Pisa dove era rimasto fino al 1963 quando era stato nominato professore straordinario all’Università di Messina.
Nell’anno accademico 1975/'76 era tornato a Pisa come professore ordinario di Patologia generale. A cavallo degli anni ’70 e ’80 il professor Pellegrino è stato preside della facoltà di Medicina e chirurgia. Nel 1989 gli era stato conferito dall’Università di Pisa l’Ordine del Cherubino.

Nella sua lunga carriera il professor Pellegrino si è occupato di molti argomenti di patologia biochimica concentrandosi soprattutto sulla regolazione surrenalica del metabolismo lipidico e glucidico, ma è ricordato soprattutto per i suoi studi sulla fisiopatologia del muscolo scheletrico. In quest’ultimo campo, il professor Pellegrino ha contribuito in maniera determinante allo studio e alla caratterizzazione dell’atrofia da denervazione e a quella da castrazione del muscolo scheletrico con una serie di contributi scientifici che sono considerati dei veri e propri classici nel settore. Sempre in questo ambito, il professor Pellegrino è stato un pioniere nell’applicazione dell’analisi ultrastrutturale al microscopio elettronico, tecnica che aveva avuto modo di apprendere e approfondire durante un lungo periodo di studio a Londra negli anni ’50. A questo proposito è importante ricordare che a lui si deve la fondazione del Centro di Microscopia Elettronica della Scuola Medica, del quale sono stati celebrati nel 2013 i 50 anni di attività.

Per dare un’idea del valore scientifico del professor Claudio Pellegrino, è opportuno ricordare che il suo lavoro del 1963 sull’atrofia da denervazione del muscolo scheletrico pubblicato sul J Cell Biol (Pellegrino C, Franzini C., "An Electron Microscope Study of Denervation Atrophy in Red and White Skeletal Muscle Fibers", J Cell Biol. 1963; 17(2):327-49) ha ricevuto da allora quasi 300 citazioni, delle quali almeno 10 successivamente al 2014.

Per la prima volta in paleopatologia è stato documentato l’uso medievale del cauterio in relazione al trattamento chirurgico di un trauma cranico. La scoperta viene dalla Divisione di Paleopatologia dell'Università di Pisa, diretta dalla professoressa Valentina Giuffra, che ha condotto uno studio sul corpo mummificato di San Davino Armeno durante una ricognizione canonica promossa dalla Curia Arcivescovile di Lucca e condotta nel marzo 2018 sotto la supervisione scientifica del professor Gino Fornaciari. Lo studio è stato ritenuto così interessante per gli aspetti paleopatologici e storico-medici da essere pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “The Lancet”.

Fig. 1 La mummia di San Davino, XI secolo (Lucca, San Michele in Foro).jpg
La mummia di San Davino, XI secolo (Lucca, San Michele in Foro).

Nelle fonti agiografiche leggiamo che Davino, originario del Regno d’Armenia, giunse a Lucca nell’anno 1050, dopo un lungo pellegrinaggio che lo avrebbe condotto prima a Gerusalemme e poi a Roma. Morì a Lucca improvvisamente sulla strada per Santiago de Compostela. Il corpo, conservatosi miracolosamente, divenne presto oggetto di grande venerazione ed è stato conservato per secoli nell’altare maggiore della basilica di San Michele in Foro. “Lo studio, che ha incluso l’esame macroscopico e la CT total body della mummia, effettuata presso la Clinica Barbantini di Lucca, ha rivelato trattarsi di un giovane adulto di circa 25 anni – spiega la professoressa Valentina Giuffra - Sul cranio sono state rilevate due lesioni traumatiche con segni di lunga sopravvivenza: un taglio superficiale sul frontale lungo 5 cm, prodotto da una lama dentata, e una lesione ellittica con frattura depressa in corrispondenza del tratto di destra della sutura coronale, prodotta da un corpo contundente. Intorno a questa lesione è stato possibile osservare una cicatrice ossea con margini sottili di forma pentagonale, causata dal contatto di un ferro rovente, un cauterio a testa pentagonale, applicato probabilmente per arrestare l’emorragia dopo la toilette chirurgica”.

2.Il cranio di San Davino con in evidenza la lesione che mostra i segni del cauterio pentagonale
Il cranio di San Davino con in evidenza la lesione che mostra i segni del cauterio pentagonale.

La medicina medievale bizantina e araba faceva ampio uso del cauterio, ossia di un ferro rovente da applicare a una lesione o a una ferita a scopo terapeutico. In particolare, il mondo islamico aveva elaborato una dottrina medico-chirurgica che prevedeva in moltissimi casi il ricorso alla cauterizzazione, intervento che aveva il merito di limitare l’effusione del sangue, così come prescritto dalle leggi coraniche. Uno dei maggiori chirurghi islamici del X-XI secolo, lo spagnolo Albucasis, nel celebre trattato “al-Tasrif” descrive con dovizia di particolari le modalità d’uso del cauterio. Nonostante queste attestazioni storiche, rarissimi sono i casi paleopatologici di cauterizzazione individuati direttamente sui resti umani antichi.

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Particolare della lesione con segni di cauterio.

I cauteri avevano forma variabile: rotondi, a oliva, quadrati o poligonali, a seconda del loro impiego e dello scopo dell’intervento, ma finora non era stata trovata una prova diretta così evidente di questa pratica chirurgica. Antonio Fornaciari, primo autore del lavoro, aggiunge: “San Davino nella tradizione popolare era il Santo invocato per la guarigione del mal di testa; fino a qualche decennio fa i devoti erano soliti andare a venerare il corpo e indossavano il cappello di San Davino per ottenere la guarigione. È interessante aver trovato sul cranio del Santo l’evidenza di due gravi traumi cranici, di cui uno con evidenza di trattamento medico. È evidente che Davino soffrì di gravi emicranie a seguito dei traumi e che dunque la tradizione ha una relazione con episodi della vita del Santo realmente accaduti”.

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Cauterizzazione del cranio nel trattato di Chirurgia di Charaf Ed-Din (1465).

 

A Pisa, primi in Toscana, viene sperimentata da qualche tempo con successo la tecnica Desarda per la riparazione dell’ernia inguinale. Si tratta di una procedura alternativa, ideata appunto dal chirurgo indiano Mohan P. Desarda, che rinuncia all’utilizzo delle protesi sintetiche basandosi su una conoscenza approfondita dell’anatomia inguinale. Per la correzione del difetto della parete posteriore del canale inguinale - che è alla base della fisiopatologia dell’ernia - la tecnica utilizza infatti la fascia del muscolo obliquo esterno, opportunamente sezionata e sagomata, che viene trasposta in basso e usata come rinforzo del difetto parietale.

I primi 13 casi di intervento con la tecnica Desarda in Toscana sono stati eseguiti nella Sezione dipartimentale di Chirurgia generale universitaria dell’Aoup dal dottor Francesco Porcelli, sotto la guida del professor Giulio Di Candio, che ne ha stimolato l’utilizzo.

 

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In pratica, rispetto alla tecnica Bassini del 1890 e successive modifiche - fino alla Shouldice del 1952 (due strati, 4 linee di sutura), che ne rappresentano indubbiamente il riferimento storico - la tecnica di Desarda non coinvolge il tendine congiunto, non lo abbassa e solidarizza, forzandolo, al ligamento inguinale, evitando così quella tensione residua che ha costretto i chirurghi ad abbandonare queste procedure a fronte delle tecniche “tension free” con protesi (Fig-1 a-d).

L’ernia inguinale è una delle patologie più frequenti e la sua correzione uno degli interventi più praticati al mondo. Solo negli Stati Uniti vengono sottoposti ogni anno ad intervento per ernia inguinale 800.000 pazienti su un totale di 1.000.000 di ernie (circa 20.000.000 nel mondo) rappresentate in ordine di frequenza da ernie inguinali, ombelicali, laparoceli e femorali o crurali. Il risvolto economico e sociale si rileva pertanto piuttosto pesante, anche nel nostro Paese.

Numerose sono le tecniche chirurgiche di ernioplastica inguinale, negli ultimi anni si sono in particolare affermate le cosiddette tecniche senza tensione grazie all’utilizzo di protesi biocompatibili (alloplastica) che possono essere in materiale sintetico (polipropilene, poliestere, PTFE-e e composite) o biologico (derma suino, pericardio bovino).

La tecnica non è applicabile a tutti i pazienti e a tutti i tipi di ernie ma, in casi selezionati, permette un risparmio economico e di tempo operatorio e, non prevedendo l’uso di materiale protesico artificiale, azzera i rischi di infezione, rigetto o reazione sclerotica periprotesica. Gli eventi avversi determinati dalla sola presenza delle protesi sono ben noti e temuti: fra i tanti (infezione, rigetto, dislocazione/migrazione), non di rado, anche il dolore cronico e non trattabile che può giustificare il re-intervento e la rimozione di ciò che, alla fine, è diventato un corpo estraneo. Quest’ultima è una procedura complessa e delicata, con costi sanitari e sociali non trascurabili.
La tecnica di Mohan P. Desarda si aggiunge così a quel ventaglio di opzioni chirurgiche, permettendo ancora di adattare la scelta della tecnica alle caratteristiche e alla situazione del singolo paziente, realizzando una chirurgia disegnata sulle caratteristiche anatomiche di ciascuno (edm).

 

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