Il Progetto ENDuRE - European Network of Design for Resilient Entrepreneurship – è giunto alla conclusione. ENDuRE è stato finanziato dalla Commissione Europea nell’ambito dell’Erasmus+ “Knowledge Alliances”, che ha visto l’Università di Pisa capofila di un partenariato che per l’Italia ha coinvolto anche il Polo Tecnologico di Navacchio e l'agenzia formativa CEDIT, insieme a università e aziende della Danimarca e del Regno Unito.
Ideato come approccio innovativo per educare all’imprenditorialità, ENDuRE si è posto l’obiettivo di accrescere la resilienza e la competitività delle start-up europee. I partner accademici e aziendali hanno sviluppato un programma olistico per trasformare le idee imprenditoriali in attività tecnicamente ed economicamente solide.
Le metodologie e i materiali sviluppati in questi due anni di attività, sono ora disponibili sul sito ufficiale del progetto. “Start-upper, imprenditori, università, parchi tecnologici e tutti gli altri attori rilevanti dell’ecosistema imprenditoriale potranno accedere liberamente ai materiali. Queste risorse, create per studenti universitari, laureati e potenziali imprenditori, sono scalabili, trasferibili e adattabili a start-up a vari livelli di sviluppo e maturità” ha dichiarato il professore Gualtiero Fantoni, coordinatore scientifico del progetto.
Tra i vari materiali fruibili si distingue il primo volume di una collana di ebook sull’imprenditorialità. Questo ambizioso progetto editoriale raccoglie finora i contributi di 37 esperti sul tema dell’imprenditorialità provenienti da tutto il mondo. Nei mesi scorsi è stato completato e pubblicato il primo volume (Social), mentre i due successivi (Knowledge e Business, rispettivamente) sono in preparazione e saranno disponibili entro l’anno, ma sono ancora aperti ad accogliere il contributo di docenti, imprenditori o altri attori dell’ecosistema dell’imprenditorialità.
Tutti i risultati prodotti possono essere riassunti in due categorie principali:
Materiali per la creazione di un percorso formativo
• ENDuRE Program - Step-by-step Guide: abbiamo sviluppato la metodologia ENDuRE e la mettiamo a disposizione delle università europee e di tutte le organizzazioni interessate
• ENDuRE Program - Experience and Findings: abbiamo riportato le esperienze dei partner universitari nella realizzazione dei corsi di formazione e le principali lezioni che abbiamo imparato
• ENDuRE Mobility - Report and Findings: la nostra metodologia comprende un periodo di formazione all’estero di due mesi per alcune start-up selezionate che vengono ospitate da un’azienda matura. Abbiamo voluto raccontare come tale attività potrebbe essere replicata da altre organizzazioni
Materiali e contenuti per la formazione
• Materiali utilizzati durante il corso: abbiamo raccolto tutte le risorse, metodologie e strumenti adottati durante i corsi ENDuRE organizzati dai tre atenei che sono facilmente scaricabili
• Primo volume dell’e-book (Social): il primo volume è disponibile gratuitamente online. I successivi due volumi (Knowledge e Business, rispettivamente) sono in preparazione.
• Research & Reports: entra in contatto con i nostri esperti e lasciati ispirare dalle loro esperienze
Industria 4.0 è al centro dell'attenzione di tutti da ormai diversi mesi. Quali vantaggi ne derivano per le PMI e più in generale per le aziende italiane? Come sfruttare al massimo le opportunità che ne scaturiscono? Quali interventi realizzare? Sono queste le domande cardine che ogni impresa si deve fare. Il manuale "Industria 4.0 senza slogan" nasce con l'idea di fare chiarezza proprio su queste tematiche grazie al contributo di molti professori esperti in materia e di molti industriali che hanno supportato il gruppo di ricerca con la condivisione di casi reali.
Il libro nasce da una provocazione che la Regione Toscana ha lanciato nel corso degli Incontri di Artimino nel novembre 2016 in merito alla grande attività di divulgazione che il tema Industria 4.0 richiede per raggiungere capillarmente tutte le imprese: "l'Università si occupa di ricerca e di alta formazione, ma è capace di fare divulgazione?" Ed ecco che l'Università di Pisa ha subito raccolto la provocazione e con il suo team di ricerca ha scritto di Industria 4.0 dopo aver intervistato moltissimi professori ed ex studenti dell'ateneo pisano e non solo. Ma questa edizione non è che una prima raccolta di contributi. L'idea, infatti, è quella di aprire un libro elettronico che possa continuare ad accogliere i contributi di molti: di università ed enti di ricerca, e poi di imprese, distretti e poli tecnologici, della consulenza. E possa essere letto dalle imprese come un primo passo di conoscenza.
Gli autori dell'opuscolo, che è stato stampato dalla Regione e contiene al suo interno una introduzione dell'Assessore alle Attività produttive Stefano Ciuoffo, sono Gloria Cervelli, borsista dell'Università di Pisa sullo studio e l'implementazione di metodologie per il design di nuovi modelli di business per l'Industria 4.0, Simona Pira, borsista presso l'Università di Pisa su metodi e strumenti per l'innovazione e la creazione di impresa nel settore ICT e Hard Science e Leonello Trivelli, dottorando presso il Dipartimento di Economia e Management dell'Università di Pisa e parte del team del progetto europeo ENDuRE. Curatore del lavoro è Gualtiero Fantoni, professore associato presso l'Università di Pisa e ricercatore di tecnologia meccanica e sistemi di lavorazione.
Scrive il professor Fantoni nella prefazione: "L'industria 4.0 potrebbe senza grossa fatica essere letta come un'azione di marketing (riuscitissima) ad opera di un gruppo di vari attori, tutti con sede in Germania. D'altronde l'idea di una fabbrica totalmente digitalizzata non ha potuto che trovare favorevoli i grandi e piccoli provider di software e di sistemi di nuova generazione (cloud, 4G, ecc.) che hanno iniziato a fare da cassa di risonanza al concetto di Industria 4.0". E continua domandandosi: "Può un concetto nato nel mondo delle grandi imprese tedesche essere preso senza adattamenti alla realtà italiana? Certamente no, occorre uno sforzo di reinterpretazione e adattamento. Ma allora cosa può significare, in concreto, Industria 4.0 in Toscana, ed in particolare nella pratica e nella vita quotidiana delle PMI?".
Il tema della conoscenza diventa, in questo contesto, imprescindibile. Come afferma, infatti, l'Assessore Stefano Ciuoffo nell'introduzione: "La conoscenza del processo, a più livelli, sia come contenuti, sia come destinatari, è essenziale e deve prevedere interventi di divulgazione tecnologica, di intelligenza strategica che integri i titolari delle politiche pubbliche, il sistema della competenze e della formazione, le infrastrutture per il trasferimento tecnologico (laboratori, dimostratori tecnologici, incubatori), le imprese e il mondo del lavoro".
Starà a tutti, imprenditori, lavoratori, ricercatori ed insegnanti, far sì che Industria 4.0 diventi una bella occasione di rilancio e di ammodernamento del nostro tessuto industriale e non rimanga solo lo slogan del 2017. L'auspicio è, con questa iniziativa, di aver dato un primissimo contributo alla possibilità di modernizzazione produttiva del nostro territorio.
Questa prima edizione del libro, stampato dalla Giunta regionale Toscana presso il Centro Stampa del Consiglio regionale della Toscana, è anche gratuitamente scaricabile in formato pdf. (Fonte Toscana Notizie).
Nella foto in basso, i curatori del volume, da sinistra Gloria Cervelli, Leonello Trivelli, Simona Pira e Gualtiero Fantoni.
Ricercatori dell’Università di Manchester e dell’Università di Pisa hanno dimostrato la possibilità di realizzare circuiti e dispositivi elettronici con una nuova tecnologia basata sulla stampa a getto di inchiostro di grafene e altri materiali bidimensionali. Il gruppo di ricerca dell’Università di Manchester, guidato dalla professoressa Cinzia Casiraghi, ha sviluppato un metodo per la produzione di inchiostri a base d’acqua contenenti materiali bimensionali, che potrebbero trasformare le eterostrutture di cristalli bidimensionali da prodotti di laboratorio in prodotti commerciali. Con tali inchiostri, i ricercatori dell’Università di Pisa e di Manchester hanno creato memorie digitali.
Il grafene è il primo materiale bidimensionale: 200 volte più forte dell’acciaio, leggero, flessibile e più conduttivo del rame. Da quando è stato isolato, nel 2004, la famiglia dei materiali bidimensionali è diventata molto numerosa. Usando il grafene e altri materiali bidimensionali, gli scienziati possono affiancare e sovrapporre strati come fossero mattoncini Lego in una sequenza desiderata, chiamata “eterostruttura”, per realizzare dispositivi dedicati ad applicazioni specifiche.
“Con eterostrutture verticali e laterali è possibile ottenere un numero enorme di combinazioni tra cui selezionare le proprietà e le geometrie più adatte per ogni uso – dice il professor Giuseppe Iannaccone, docente di Elettronica al dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa – Stiamo esplorando con attenzione e pragmatismo le potenzialità applicative dei materiali bidimensionali, tenendo presente che storicamente l’introduzione di nuovi materiali e nuove tecnologie di produzione ha continuamente ampliato gli impieghi dell’elettronica”.
Fino ad oggi gli inchiostri per realizzare eterostrutture con metodi semplici e a basso costo erano lontani dall’ideale, perché usavano solventi tossici o richiedevano processi costosi e lenti. “I nuovi inchiostri sviluppati dall’Università di Manchester sono a base d’acqua e biocompatibili e sono adatti a una tecnologia a basso costo come la stampa a getto di inchiostro – aggiunge il professor Gianluca Fiori, anche lui docente di Elettronica al dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa – Per questo motivo stiamo ideando e realizzando con i colleghi di Manchester dispositivi e circuiti elettronici stampati su substrati flessibili per l’uso in etichette intelligenti, beni di consumo e applicazioni biomedicali”.
Ne hanno parlato:
Repubblica.it
Corriere Imprese Toscana
InToscana.it
Nazione Pisa
NazionePisa.it
AskaNews
QuiNewsPisa.it
gonews.it
Phys.org
RD Magazine
The Engineer UK
Produrre omogeneizzati di carne, verdura e frutta biologici a Km zero e con materie prime tutte toscane. È questo l’obiettivo del progetto biennale “Peter Baby Bio” appena finanziato dalla Regione Toscana e coordinato scientificamente dall’Università di Pisa.
“Lo scopo è di mettere a punto alimenti per l’infanzia che siano innovativi per le metodologie di produzione, la tracciabilità delle materie prime, le caratteristiche nutrizionali e la sicurezza alimentare”, ha spiegato Marcello Mele, responsabile scientifico del progetto e professore del dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università di Pisa.
“Peter Baby Bio” si inserisce nell’ampia discussione attuale sull’origine delle materie prime e sulla possibile presenza di inquinanti degli omogenizzati in commercio. Il Podere Pereto a Rapolano Terme in provincia di Sien,a che ha una documentata esperienza nei sistemi di produzione da agricoltura biologica, è l’azienda che produrrà gli omogeneizzati e che svolge il ruolo di capofila. La consulenza dietistica per le ricette degli omogeneizzati sarà fornita dall’equipe del professore Giovanni Federico, pediatra del dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università di Pisa.
“Testeremo gli alimenti, anche per la palatabilità, cioè la gradevolezza al gusto, prima e dopo la trasformazione – aggiunge Marcello Mele - per valutare il mantenimento delle proprietà nutrizionali originali e l’assenza di sostanze inquinanti e o tossiche, anche generate durante il processo di trasformazione”.
Le analisi saranno condotte nei laboratori dell’Università di Pisa del professore Marcello Mele e della professoressa Annamaria Ranieri, e in quelli dell’Università di Siena del professore Claudio Rossi e dell’Università di Bologna della professoressa Maria Rodriguez Estrada. Il coordinamento delle attività tecniche sarà curato dalla dottoressa Alice Pollicardo, agronoma dello Studio di Agronomia BioProject, Monteroni D’Arbia di Siena.
L’avvio ufficiale del progetto sarà giovedì 26 gennaio con una giornata divulgativa che si svolgerà dalle 9.30 nell'azienda agricola Poggio Alloro a San Gimignano in provincia di Siena.
Sono 171 i ragazzi che sabato 21 gennaio, con una cerimonia istituzionale che si è tenuta a Palazzo dei Congressi, hanno ritirato il diploma di laurea di primo livello in Ingegneria conseguita nel secondo semestre del 2016 all'Università di Pisa. I neolaureati hanno presentato una breve sintesi dell’attività svolta come prova finale, ricevendo poi il loro diploma di laurea o, se laureati con lode, una medaglia della Scuola interdipartimentale di Ingegneria, appositamente realizzata. Alla cerimonia, ha portato i suoi saluti anche il rettore Paolo Mancarella.
La commissione, abbigliata nella tradizionale divisa comprendente toga, tocco e pettorina, era formata dal neo-presidente della Scuola interdipartimentale di Ingegneria, Alberto Landi, dal professor Massimo Ceraolo, presidente di cerimonia, e dai vari presidenti dei corsi di laurea che si sono alternati nelle varie sessioni della giornata: Buno Neri (Ingegneria elettronica); Marco Avvenuti, in sostituzione di Gigliola Vaglini (Ingegneria informatica); Giuliano Manara (Ingegneria delle Telecomunicazioni); Luigi Landini (Ingegneria biomedica); Massimo Losa (Ingegneria civile ambientale e edile, Ingegneria civile e ambientale; Ingegneria civile dell’ambiente e del territorio, Ingegneria edile); Alessandro Franco (Ingegneria elettrica/energetica/dell’energia); Walter Ambrosini (Ingegneria della sicurezza industriale e nucleare, Ingegneria nucleare e della sicurezza e protezione e Ingegneria meccanica, quest'ultima in sostituzione di Sandro Barone); Maria Vittoria Salvetti (Ingegneria Aerospaziale); Sandra Vitolo (Ingegneria chimica); Andrea Bonaccorsi (Ingegneria gestionale).
«Questa è stata la seconda cerimonia di consegna dei diplomi e, come e più della precedente (svoltasi lo scorso 2 luglio) è stata coronata da buon successo - commenta il professor Massimo Ceraolo - I laureati, alcuni emozionati altri più spigliati, hanno avuto l’opportunità di esporre ad un’ampia platea il lavoro che hanno svolto come prova finale. La commissione ha ascoltato con interesse le relazioni, ricavandone anche un quadro ricco e completo delle varie attività che vengono svolte a coronamento del corso di laurea. La stessa commissione, alla fine di ogni turno, ha applaudito coralmente tutti i neo-laureati, incoraggiandoli a farsi strada nelle loro future carriere lavorative o di studio, portando alto il nome dell’Università di Pisa e della Scuola di Ingegneria».
Qui di seguito, pubblichiamo alcune foto della cerimonia che la Scuola interdipartimentale di Ingegneria metterà a disposizione dei laureati nei prossimi giorni.
Ne hanno parlato:
Tirreno Pisa
PisaInformaFlash.it
gonews.it
quinewspisa.it
pisa24.info
Sono il futuro della diagnostica clinica: parliamo di una nuova generazione di biosensori in silicio poroso nanostrutturato ultrasensibili e potenzialmente validi per lo screening “point-of-care” e a basso costo di marker tumorali o cardiaci. L’innovativa tecnologia è stata sviluppata dal gruppo di ricerca del professore Giuseppe Barillaro del dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa in collaborazione con l’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa nell’ambito del progetto Sens4Bio (Ultra-Sensitive Flow-Through Optofluidic MicroResonators for Biosensing Applications) finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.. I risultati della ricerca sono stati pubblicati su due riviste internazionali dell’American Chemical Society: ACS AnalyticalChemistry e ACS Sensors.
“Lo scenario entro cui si collocano queste ricerche – spiega Giuseppe Barillaro - è quello dei “Lab-on-Chip” cioè dei laboratori di analisi miniaturizzati realizzati su un chip delle dimensioni di pochi cm quadrati che, entro la prima metà del XXI secolo, permetteranno di effettuare la maggior parte delle analisi chimiche e biologiche, attualmente svolte in laboratori specializzati con costi elevati, con sistemi portatili ed a basso costo”.
Il cuore dei Lab-on-Chip sono proprio i biosensori, dispositivi miniaturizzati capaci di riconoscere, per esempio, una specifica molecola di interesse clinico e diagnostico correlata a un stato patologico o ad una alterazione funzionale dell’organismo. In particolare, i biosensori ottici in silicio poroso nanostrutturato hanno potenzialmente un bassissimo costo se prodotti su larga scala, meno di un centesimo di euro per pezzo, ma di contro sono poco sensibili se adoperati in modalità label-free, cioè senza l’uso di molecole fluorescenti. Ovviare a questo inconveniente era uno degli obiettivi del progetto e per questo i ricercatori, fra cui Stefano Mariani che si è occupato della preparazione e caratterizzazione dei biosensori e Lucanos Marsilio Strambini che si è occupato dell’elaborazione dei segnali, hanno sviluppato una nuova tecnica di lettura (IAW, Interferogram Average over Wavelength Reflectance Spectroscopy) che permette di migliorare di 10mila volte le prestazioni dei biosensori.
“Non è difficile intravedere in un prossimo futuro l’utilizzo di questi biosensori in Lab-on-Chip per fare analisi sul campo mediante utilizzo di uno smartphone – concludono Stefano Mariani e Lucanos Strambini - visto che la tecnica di lettura ottica sviluppata coniuga un aumento della sensibilità con riduzione della potenza di calcolo richiesta”.
Foto, da sinistra Giuseppe Barillaro, Stefano Mariani e Lucanos Marsilio Strambini
Si intitola Demal te niew ed è un webdoc che racconta le storie di tre migranti senegalesi che, dopo un periodo in Italia, sono tornati nel loro Paese di origine e lì hanno avviato un’attività lavorativa. Il lavoro, pubblicato sul sito dell’Espresso mediapartner dell’iniziativa, è stato realizzato con il contributo di un team del KDD Lab di Università di Pisa e Isti Cnr, con il supporto dell’Infrastruttura di ricerca SoBigData che ha eseguito un lavoro di analisi e visualizzazione di dati utilizzati con lo scopo di contestualizzare le storie dei tre protagonisti del documentario nel quadro più ampio delle migrazioni attuali. In particolare ci hanno lavorato Viola Bachini, che si è occupata delle interviste e della ricerca giornalistica, Daniele Fadda e Salvatore Rinzivillo che hanno curato la parte scientifica di ricerca sui dati.
Nato da un’idea di due italiane - Silvia Lami e Marcella Pasotti - che lavorano come cooperanti internazionali in Senegal, e diretto da Roberto Malfagia de La Jetee, il webdoc è stato realizzato da un team multidisciplinare grazie al supporto dello European Journalism Centre, partendo da una ricerca etnografica condotta su decine di migranti di ritorno. «“Demal te niew” (che significa “Va’ e torna” in lingua wolof) parla di migrazioni di ritorno attraverso le storie di Karou, Ndary e Mouhammed, che dopo aver trascorso diversi anni in Italia hanno deciso di scommettere su un futuro in Senegal, il Paese in cui sono nati - spiega Viola Bachini - Il webdoc interattivo racconta la vita quotidiana, le difficoltà e i successi di questi tre piccoli imprenditori attraverso testi, foto, interviste e dati. Il documentario è interattivo perché gli utenti possono scegliere tra i diversi percorsi narrativi proposti, i dati presentati e le foto scattate in Senegal».
Per inquadrare meglio le storie dei tre protagonisti, il team del KDD Lab ha eseguito un lavoro di analisi e visualizzazione dati. «Abbiamo utilizzato dati provenienti da fonti istituzionali, come l’Istat, per raccontare meglio il fenomeno delle migrazioni tra Italia e Senegal - racconta Daniele Fadda, information designer al KDD (nella foto a destra con Viola Bachini) - Inoltre, abbiamo fatto un’analisi sui volumi del traffico telefonico da e verso il Senegal, scoprendo qualcosa di più sui flussi migratori delle persone». I dati sulle chiamate internazionali senegalesi del 2013 sono stati messi a disposizione dalla compagnia telefonica Orange. All’analisi ha lavorato anche Ruben Bassani, ex studente del master in Big Data dell’Università di Pisa ed esperto di migrazioni di ritorno.
Il web doc è stato selezionato per partecipare all’Ethnographic Film Festival di Amsterdam a inizio dicembre. Sempre a dicembre, l'OIM, Organizzazione Internazionale Migrazioni, lo ha presentato a Dakar in anteprima per l’Africa. Nelle prossime settimane sarà tradotto anche in spagnolo per il sito del quotidiano El Pais e sarà presentato in diversi eventi sulle migrazioni da Trento a Londra. Il dietro le quinte delle interviste girate in Senegal la scorsa estate si trova invece sulla rivista Micron.
Il webdoc è disponibile a questo link. Le foto sono di Sylvain Cherkoui - Cosmos.
I protagonisti del documentario:
Ndary, 37 anni, è socio di una gelateria italiana a Saly, località turistica sull’Oceano Atlantico. Lavorava come addetto alla segnaletica stradale a Pescara.
Karou, 35 anni, dopo 15 a Bergamo sta per avviare una produzione di tubi in plastica riciclata a Thiès. Con lui si sono trasferiti la moglie e i sei figli.
Mouhammed, 40 anni, lavora a Dakar nel commercio di abiti usati con soci italiani e senegalesi. Faceva il venditore ambulante a Como e Napoli.
Al via all’Università di Pisa la prima edizione del master “Preparatore fisico-istruttore, allenatore in sport di situazione: scherma, arti marziali, lotta e pugilato” che qualifica alla professione di allenatore "tecnico sportivo". L’obiettivo del corso è di formare professionisti in grado di seguire gli atleti a livello motivazionale e fisico e di definire strategie di gara ed innovative tecniche di gioco. Attivato dal dipartimento di Medicina e clinica sperimentale dell’Ateneo pisano, il corso fornirà nozioni di anatomia, fisiologia, biochimica, medicina, psicologia e pedagogia.
“Si tratta di un master unico nel panorama nazionale – spiega il direttore, professore Ferdinando Franzoni – voluto fortemente dall’Ateneo, dal CONI regionale toscano e dal Comune di Livorno per promuovere gli sport di situazione che negli ultimi anni hanno dato grandi soddisfazioni allo sport italiano nelle competizioni olimpiche, ma per i quali c’è il bisogno di una formazione tecnico-professionale anche di livello universitario”.
Tra i docenti figurano medagliati olimpici nelle discipline oggetto del master stesso, nonché professionisti dei settori tecnico-sportivi del CONI. Per presentare domanda di iscrizione c’è tempo sino al 10 febbraio, mentre le lezioni cominceranno il 24 febbraio. Il costo del master è di 2.500 e sono previste borse di studio. I posti disponibili sono da un minimo di 8 a un massimo di 25. Per informazioni: tel. 050 2211842, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..
È considerato uno dei più grandi predatori mai esistiti sulla faccia della Terra, con esemplari che potevano superare anche i sedici metri di lunghezza e si ritiene che le sue enormi fauci potessero mordere con una forza dieci volte maggiore di quella dell’odierno squalo bianco. È il Carcharocles megalodon, un gigantesco squalo estinto che ha ispirato celeberrimi mostri marini del mondo del cinema, come il terrificante protagonista de “Lo Squalo” di Steven Spielberg, diventando una vera e propria icona pop.
Questo terribile killer del passato è stato identificato dai paleontologi grazie ai suoi resti fossili (principalmente denti e vertebre dalle dimensioni strabilianti ritrovati all’interno di sedimenti marini depositatisi tra 20 e 3 milioni di anni fa circa), ed è ormai ben noto al grande pubblico come uno spietato cacciatore delle balene degli antichi mari. Tuttavia, al netto delle speculazioni, fino ad ora le testimonianze fossili non offrivano molti dati oggettivi circa le abitudini alimentari di questo animale dalla fama leggendaria. Ma una recente ricerca coordinata dai paleontologi dell’Università di Pisa potrebbe gettare un po' di luce su questi aspetti enigmatici della storia naturale del “Megalodon”.
Figura 1. Ricostruzione artistica di un adulto di Carcharocles megalodon che preda una Piscobalaena nana. Illustrazione di Alberto Gennari.
Da oltre dieci anni l’Università di Pisa, in collaborazione con quelle di Camerino e Milano-Bicocca e con diverse istituzioni peruviane ed europee, conduce ricerche nel deserto costiero del Perù meridionale: una delle aree più ricche al mondo di fossili di cetacei, squali, uccelli e rettili marini. Gli scheletri di questi vertebrati affiorano dalla sabbia del deserto eccezionalmente conservati e spesso ancora perfettamente articolati. I sedimenti che li racchiudono si sono depositati nel corso di milioni di anni su un antico fondale marino, poi emerso a seguito degli intensi movimenti della crosta terrestre che interessano il versante occidentale della catena Andina. “Uno dei nostri obiettivi - afferma Giovanni Bianucci, professore di paleontologia presso il dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Pisa e coordinatore delle ricerche in Perù - è quello di ricostruire, grazie allo studio dei fossili, l’intera fauna che visse in questi mari. Tuttavia non vogliamo limitarci a dare un nome agli animali ma, sopratutto, capire come interagivano tra loro, di cosa si nutrivano e come si sono evoluti nel corso dei milioni di anni”.
In questo tipo di studi, non sono sempre i reperti fossili più completi e spettacolari a fornire i dati più interessanti e inaspettati, ed è infatti su alcune ossa frammentarie, risalenti a circa 7 milioni di anni fa, che i ricercatori pisani e i loro colleghi hanno scoperto le lunghe incisioni lasciate dal morso di un grande squalo.
“L’approfondita analisi e lo studio di queste tracce - spiega Alberto Collareta, dottorando presso il dipartimento di Scienze della Terra di Pisa e responsabile dello studio pubblicato nella rivista internazionale “Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology” - hanno permesso di identificare sia gli animali 'morsicati' che il responsabile del morso. I primi sono rappresentati da foche e cetacei (fra cui la Piscobalaena nana, una balena di piccola taglia appartenente alla famiglia oggi estinta dei Cetotheriidae), mentre il loro predatore è ragionevolmente identificabile in Carcharocles megalodon, i cui denti sono gli unici che, per forma e dimensioni, possono aver prodotto le tracce osservate.
Questo è un risultato di per sé importante, perché per la prima volta possiamo dare un nome specifico a uno degli 'ingredienti' della dieta del Megalodon; ma è anche intressante il fatto che la Piscobalaena nana fosse un mammifero marino di dimensioni relativamente piccole (presumibilmente non superava i 4-5 metri di lunghezza) perché contraddice la credenza secondo cui il Megalodon si nutriva esclusivamente di grandi balene.
Figura 2. Ossa fossili rinvenute nel deserto del Perù appartenenti a una piccola balena (in alto) e a una foca (in basso) con segni di morsi lasciati dallo squalo gigante Carcharocles megalodon.
Se facciamo un parallelo con le abitudini alimentari dello squalo bianco, considerato un analogo moderno e 'miniaturizzato' del Carcharocles megalodon, possiamo ragionevolmente ipotizzare che questo gigantesco squalo estinto avesse una dieta ampia e diversificata che, pur comprendendo pesci e molluschi era comunque incentrata sui mammiferi marini di media taglia (foche e cetacei). Al contrario, l'ipotesi secondo cui C. megalodon era un attivo predatore di grandi balene non appare adeguatamente supportata dai dati attualistici. È anche possibile ipotizzare che l’estinzione delle balene di piccole dimensioni, fra cui i Cetotheriidae, intorno ai 3 milioni di anni fa (cioè alla fine del Pliocene) abbia privato questo grande predatore delle sue prede predilette, favorendone l’estinzione”.
“Il nostro studio - conclude Bianucci - non solo contribuisce a conoscere la biologia del più grande squalo mai esistito, ma anche a chiarire le dinamiche evolutive che hanno portato ai grandi cambiamenti nella fauna marina, spesso legati al rompersi di delicati equilibri tra prede e predatori, fino alla messa in posto della fauna attuale”.
Parte da Pisa UBORA, il progetto di ricerca coordinato dall’Ateneo pisano e finanziato dall’Unione Europea con un milione di euro che punta alla creazione di una piattaforma virtuale tra Europa e Africa, dove i bioingegneri dei due continenti potranno condividere know-how e risorse. Il 16 e 17 gennaio l’Università di Pisa ha ospitato la riunione di lancio del progetto con i rappresentanti di tutti gli enti coinvolti, la Kenyatta University (Kenya), il Royal Institute of Technology (Svezia), la University of Tartu (Estonia), il Technical University of Madrid (Spagna), l’Uganda Industrial Research Institute (Uganda) e l’azienda estone AgileWorks.
Obiettivi e finalità del lavoro sono stati illustrati in un incontro con la stampa da Arti Ahluwalia, docente del Centro di ricerca “E. Piaggio” dell’Università di Pisa e coordinatrice del progetto, dal delegato all’Internazionalizzazione dell’Università di Pisa, Francesco Marcelloni e dal consigliere dell’ambasciata del Kenya in Italia, June Chepchirchir Ruto. «UBORA, che in lingua Swahili vuol dire “eccellenza”, dovrà portare allo sviluppo di soluzioni innovative nell’ingegneria biomedica, con un miglioramento significativo nella formazione in questo campo e nuovi stimoli per l’economia dei paesi coinvolti – ha spiegato la professoressa Ahluwalia - Grazie allo sviluppo di una piattaforma virtuale tra Europa e Africa, potremo condividere nuove soluzioni, basate su tecnologie open source, puntando a una distribuzione più equilibrata di benessere e risorse».
«Da tempo l’Università di Pisa è impegnata nella costruzione di solidi partenariati con diverse università del continente Africano – ha aggiunto il professor Marcelloni – Il nostro Ateneo, grazie alla professoressa Arti Ahluwalia, è stato infatti tra i promotori del Consorzio ABEC, “African Biomedical Engineering Consortium”, il cui scopo è il miglioramento della salute in Africa tramite la formazione di ingegneri biomedici e l'innovazione nelle tecnologie sanitarie. Il progetto UBORA segue esattamente questa filosofia».
Nei due anni del progetto, i partner si occuperanno della progettazione e dell’implementazione di dispositivi medicali basati su tecnologie open source in grado di dare risposte adeguate alle sfide nel campo della salute, con grande attenzione per la specificità del contesto e per i bisogni dei diversi paesi. Le università europee e africane coinvolte, con i loro centri di ricerca tecnologici, combineranno la filosofia dell’open design con le norme di sicurezza basate sulle linee guida europee. Grande spazio sarà dato inoltre alle attività di formazione: seguendo l’esperienza iniziata già da alcuni anni, saranno organizzati corsi e Summer School in cui i bioingegneri di entrambi i continenti potranno imparare a progettare dispositivi medici, efficienti, efficaci, sicuri e progettati per rispondere alle diverse caratteristiche del contesto africano ed europeo.
Come prima iniziativa promossa nell’ambito di UBORA c’è stata la competizione per il design del logo del progetto aperto agli studenti appartenenti alle 4 università partecipanti. Durante le giornate di lancio del progetto è stato premiato il logo creato da Pehr Wessmark, del Royal Institute of Technology (Svezia).
Ne hanno parlato:
Tirreno Pisa
Nazione Pisa
PisaInformaFlash.it
Greenreport.it
gonews.it
Pisanamente.it
PisaToday.it